A Madrid il primo congresso mondiale dedicato all'Opera dibatte temi fondamentali per il futuro del teatro musicale con la presenza di addetti ai lavori provenienti da ogni continente.
Da giovedi 12 aprile fino a sabato 14 aprile, si è tenuto a Madrid il World Opera Forum, il primo congresso mondiale a riunire Opera Europa, Opera America e Opera Latinoamerica, le associazioni dei teatri d’opera europei, nordamericani, sudamericani, insieme a ben duecentocinquanta partecipanti da tutto il mondo, nella prestigiosa cornice del Teatro Real di Madrid.
Questo forum di discussione mondiale è stato fortemente voluto da Opera Europa congiuntamente al Teatro Real di Madrid, e ha avuto dei temi forti: Cultural Heritage, New Work, Diversity e Advocacy, la tradizione, i lavori nuovi, la diversità e l’impatto sociale nel mondo dell’opera.
Tre giorni intensi di discussioni, iniziati con la presentazione del WOF con Nicholas Payne di Opera Europa, Mark Scorca di Opera America, María Victoria Alcaraz di Opera Latinoamerica e il sovrintendente del Teatro Real, che hanno risposto alle numerose domande della stampa.
In particolare va notato Mark Scorca, quando afferma che il pubblico delle opere nuove e contemporanee non è necessariamente un pubblico giovane o un pubblico che normalmente non va alle rappresentazioni del repertorio tradizionale, al contrario, spesso chi non è mai andato all’opera, preferisce titoli di repertorio a titoli nuovi.
I dibattiti hanno avuto il formato di una tavola rotonda generale, in cui gli speaker hanno avuto il compito di lanciare, anche provocatoriamente, i punti scottanti del tema della giornata; questi punti chiave sono poi stati ulteriormente trattati in quattro gruppi di discussione, sempre con il formato della tavola rotonda, ma questa volta con l’eventuale partecipazione attiva del pubblico costituito da rappresentanti di altri teatri, stampa, agenti, società di consulenza e producers.
Gli intervenuti, sia gli speaker sia i moderatori, sono stati di grandissima qualità, alcuni al limite con la genialità, come i britannici John Berry, Daniel Kramer, coraggioso direttore della English National Opera, e Graham Vick.
Nella prima giornata si è parlato di patrimonio culturale, con una domanda volutamente provocatoria: «Il patrimonio dell’opera uccide l’opera?”
Per patrimonio si intende canone, repertorio, gusto, insomma la tradizione e il repertorio tradizionale.
L’opinione condivisa da tutti gli intervenuti a questa prima sessione, tra cui Robert Marx, scrittore e manager artistico, presidente della fondazione Fan Fox & Leslie R.Samuels, principale sponsor del Lincoln Center, Lidiya Yankovskaya, direttrice musicale del Chicago Opera Theater, Nora Schmid, sovrintendente dell’Opera di Graz, Daniel Kramer, direttore artistico della English National Opera, Naoki Murata, direttore del New National Theatre Tokyo, Birgitta Svendén, direttrice della Royal Swedish Opera, Aviel Kahn, sovrintendente di Opera Vlaanderen, Fréderic Chambert, direttore del Teatro Municipal di Santiago del Cile, è stata che in effetti l’opera non può continuare aoffrire gli stessi titoli, che non può continuare a compiacere visioni tradizionaliste.
Robert Marx ha sottolineato che il repertorio cambia nel tempo, opere della tradizione considerate adesso imprenscindibili possono nel tempo sparire del tutto dalla programmazione o quasi a favore di altre. Continuare a difendere il solito repertorio è dunque una scelta anacronistica e insensata.
Il secondo tema trattato è stato dunque New Work, ovvero le opere nuove e la necessità di commissionare nuovi lavori.
Per ridare vitalità all’opera, altrimenti agonizzante sotto la polvere delle ennesime riproposizioni del già visto e già sentito, si rende necessaria la sperimentazione, si rende necessario commissionare nuovi lavori o riscoprire vecchi titoli usciti dal repertorio, titoli rari o mai eseguiti.
Si è testualmente detto che non è più pensabile riproporre produzioni vecchie di vent’anni fa, anche se ottime; se l’opera vuole tornare a diventare lo spettacolo popolare per eccellenza, deve puntare su nuove opere e nuovi allestimenti.
A parlare è il genialoide Daniel Kramer, carismatico e giovane direttore della ENO: bisogna sperimentare nuovi formati.
Per un direttore artistico questo significa anche risparmiare, non cercare a tutti i costi l’allestimento kolossal con opera stars di un’opera del repertorio tradizionale, quando si possono allo stesso costo finanziare più allestimenti di opere poco eseguite o nuove. «Perché allestire un costosissimo kolossal con grandi nomi per il solito titolo, come La bohème, quando allo stesso costo si possono offrire più allestimenti di Lulu, ad esempio?»
Secondo l’innovatore e coraggioso manager artistico John Berry, che ha rivoluzionato il modo di fare coproduzioni nei suoi venti anni - di cui dieci come direttore artistico - alla ENO, « se continuiamo a parlare fra di noi senza prestare ascolto al mondo al di fuori dell’opera, l’opera muore.»
Sofia Surgutschowa, della IMG Artists, si spinge ancora più in là «Creatività e opera non vanno più assieme nella nostra epoca, è necessario che si creino nuove opere che raccontino il nostro tempo, sono necessarie storie nuove per opere non ancora viste».
Interessante che questo sia l’approccio anglosassone all’opera, sperimentale, contemporaneo, nuovamente popolare contro ogni élitarismo.
Diversa è la situazione dei teatri sudamericani, il cui pubblico tradizionalista da una parte e la mancanza di fondi dall’altra, non permettono scelte audaci o veramente innovative - purtroppo, come ha ripetuto più volte Nicholas Payne di Opera Europa, «c’è solo una cosa costosa come la guerra, ed è l’opera»
I dibattiti sono stati volutamente animati, ottima è stata l’idea di far dialogare i direttori artistici con librettisti e compositori, non solo nei dibattiti inerenti alla necessità di commissionare e produrre opere nuove, ma anche nei dibattiti successivi sulla diversità, avvenuti nella seconda giornata, sulla necessità cioè per le case d’opera di fare scelte più sensibili e consone a una società multiculturale come quella odierna - nel commissionare opere nuove ad esempio, ma anche per quanto riguarda la gerarchia amministrativa.
La librettista Donna de Novelli: «Cosa vogliamo? Uguale rappresentazione. Quand’è che l’abbiamo voluta? Più di cento anni fa »
Più donne ai vertici dei teatri significa anche che i vertici devono cambiare e accettare di farsi da parte per favorire il cambiamento. Ma un cambiamento, dice Carlos Vicente direttore marketing della Sarasote Opera, non potrà avvenire dall’alto, dovrà essere obbligato dal basso.
Pasionaria la direttrice d’orchestra e compositrice Odalina de La Martinez, ex rifugiata cubana negli Stati Uniti, «le donne hanno marciato e protestato dalla fine dell’Ottocento per generazioni per il diritto al voto, ma sono state ascoltate solo dopo la seconda guerra mondiale quando hanno cominciato a lanciare sassi alle finestre»
Più donne ai vertici dei teatri, più donne a dirigere le orchestre, più donne compositrici, più donne librettiste a ricevere commissioni.
Non si tratta di un processo indolore, spesso è foriero di proteste tra gli stessi addetti ai lavori come è stato il caso ricordato da Birgit Meyer, sovrintendente dell’Opera di Colonia, dove una giovane direttrice d’orchestra voluta dalla stessa sovrintendente è stata protestata dall’orchestra con la motivazione «Non suoniamo perché gli altri imparino», «Invece le orchestre devono suonare anche per favorire la crescita di una nuova generazione di direttrici d’orchestra - non avrebbero detto questo se si fosse trattato di un direttore uomo».
Ma anche più apertura a diverse etnie, più apertura alle classi meno abbienti, meno elitarismo sono ormai necessari per l’acquisizione di un pubblico maggiore.
Se nel mondo angloamericano, il fattore di diversità (oltre all’essere donne) è l'etnia, il colore della pelle, si è sottolineato come in ambito europeo e latinoamericano invece il fattore di diversità e di esclusione è piuttosto socioeconomico.
Ci sono fasce intere di popolazione che non hanno accesso al teatro d’opera per i costi proibitivi dei biglietti, ad esempio, senza contare che la progressiva scomparsa della musica dalla scuola pubblica in molti paesi rende l’accesso al mondo musicale sempre più difficile per i ceti più deboli.
Daniel Kramer ha citato l’esempio virtuoso di Londra, dove da anni ai ragazzi dei quartieri più poveri che intendano studiare musica viene data la possibilità di ottenere uno strumento gratuitamente.
Se tutti sono stati concordi nell’importanza di poter fornire un accesso più economico agli studi musicali, diversa è stata l’opinione invece per quanto riguarda l’educazione all’opera.
Graham Vick, intervenuto in quanto direttore della Birmingham Opera, corrosivo al suo solito, ha posto l’accento, infatti, su come sia pericoloso parlare di «necessità dell’educazione». «Insistere sulla necessità dell’educazione può essere fuorviante perché può istigare all’idea che ci sia una distanza da superare prima di poter godere dell’opera, e questo può di fatto tenere lontano molto pubblico. Dobbiamo accogliere e includere un nuovo pubblico senza esigere per forza di educare, spesso voler educare significa voler mantenere uno status quo»
Fréderic Chambert, adesso direttore artistico del Teatro Municipal di Santiago del Cile, ha citato a questo proposito un aneddoto dei suoi anni all’Opéra de Paris, in cui i giovani della banlieu parigina, tra cui molte ragazze con il velo, un pubblico cioè non avvezzo all’opera, sono stati invitati ad assistere a una recita di Tannhäuser, ottenendo una ricezione che ha superato ogni aspettativa da parte della direzione artistica: «Molti di questi ragazzi, abituati a tutto un altro tipo di musica, per lo più amplificata, ci hanno detto di essersi grandemente emozionati a sentire orchestra e cantanti dal vivo» C’è sicuramente una parte universale del linguaggio operistico che non ha bisogno di molte spiegazioni, e che nel dibattito è stata connotata come «fascino automatico» dell’opera.
Più che di educazione, per Graham Vick, quindi, ma anche per Carlos Vicente, si deve porre l’accento sull’inclusione. Sofia Surgutschowa ha ricordato come l’opera non goda di buona fama al di là del mondo degli appassionati a e degli addetti ai lavori: è considerata elitaria, anacronistica, classista dai più.
È necessario pertanto, prosegue poi, che l’opera esca dalle sale d’opera, cerchi sale alternative a quelle classiche, magari con nuovi formati e nuove opere, e che incontri quella parte di pubblico che altrimenti non verrebbe mai in un teatro. «Non si può volere ciò che non si è visto», afferma.
L’ultimo dibattito «Può l’opera avere un impatto sociale? E come?» coordinato da Philipp Kennicott del Washington Post, ha visto inoltre la partecipazione di Dame Kiri Te Kanawa, che ha raccontato della sua fondazione in Nuova Zelanda per la promozione dei giovani cantanti. Ancora una volta si è affermata la necessità di includere, di perdere l’elitarismo che la contraddistingue, la necessità dell’opera di tornare come una volta a essere popolare.
Solo buone parole? Sicuramente è stato un bene che i direttori dei più importanti teatri d’opera al mondo si siano confrontati a uno stesso tavolo, abbiano discusso di tematiche che in fondo coinvolgono tutti: come acquisire un pubblico maggiore, come riuscire a continuare a produrre arte, superando la crisi finanziaria, ormai globale. Dalle varie tavole rotonde, dalle molte parole, e i molti bei propositi detti, una cosa però si è delineata molto chiaramente: non è più possibile rimanere isolati in una torre d’avorio, è necessario che il teatro d’opera diventi internazionale. Le cooperazioni internazionali sono diventate una necessità sia economica per abbattere i costi delle produzioni, ma anche una necessità artistica e sociale, perché è necessario proporre storie diverse, storie nuove, opere fuori dal repertorio tradizionale, anche per venire incontro e favorire una società multiculturale.
Come ha giustamente notato il sudafricano Matthew Wild, direttore artistico della Cape Town Opera, «bisogna varcare gli oceani». «Quando siamo stati al festival di Ravenna due anni fa per il tour del nostro coro» mi dice poi in una conversazione avvenuta a fine dibattito «la curiosità del pubblico italiano nei nostri confronti è stata molto alta e siamo stati accolti in maniera trionfale. Il pubblico ha bisogno del confronto con culture diverse, across oceans»
In una pausa della seconda giornata, i sovrintendenti dei teatri d’opera di paesi per noi lontanissimi, come quello di Yakutsk in Siberia, o il teatro d’opera di Ufa, nella Baschiria mi mostrano sorridendo le loro produzioni, che sperano di poter promuovere e esportare: Aleko di Rachmaninov, Il principe Igor di Borodin, La pulzella di Orléans di Čajkovskij, La sposa dello Zar di Rimsky-Korsakov, tutti titoli rari ma della loro tradizione, che nei paesi occidentali potrebbero essere accolti con grande curiosità, ad esempio. È bene insomma che si cooperi di più: anche se non si ha la possibilità di commissionare opere nuove, c’è tutto un repertorio da riscoprire, ci sono miriadi di tradizioni oltreoceano e fuori dall’Europa ancora da conoscere.
In conclusione, si è trattato di un evento eccezionale, per proporzioni, per la qualità e la diversità dei partecipanti, per i temi attuali e progressisti trattati.
Un vero successo per il Teatro Real che ha fornito una cornice lussuosa e un’ottima organizzazione. Si ripeterà? Sicuramente, anche se di certo un evento del genere richiederà anni di sforzo organizzativo. Dove si ripeterà? Sicuramente fuori dall’Europa: i pochi nomi del panorama italiano (Fondazione Haydn, Teatro San Carlo di Napoli, Aslico, Gran Teatro La Fenice, Teatro Regio di Parma) e l’assenza pressoché totale della Germania (dei suoi ben ottantaquattro teatri d’opera solo quattro hanno partecipato) a fronte dell’enorme presenza nordamericana, inglese, latinoamericana e asiatica, lasciano intravedere già dove si terrà la prossima discussione globale e dove porterà il futuro dell’opera: fuori dall’Europa, fuori dalla tradizione.