di Roberta Pedrotti
“tum vos, o Tyrii, stirpem et genus omne futurum
exercete odiis, cinerique haec mittite nostro
munera. nullus amor populis nec foedera sunto.
exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor
qui face Dardanios ferroque sequare colonos,
nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires.
litora litoribus contraria, fluctibus undas
imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque.” (Virgilio Aeneis, IV, 622-9)
“D'ora in poi, voi, o Tirii, trattate con odio la stirpe e tutta la discendenza futura, ed inviate alla nostra cenere questi doni. Fra i popoli non ci siano alcun amore né patti. Sorga un vendicatore dalle nostre ossa e insegua i coloni Dardani col ferro e col fuoco, ora e sempre, in qualunque tempo ci saranno forze. Invoco lidi opposti a lidi, flutti a flutti, armi ad armi: combattano essi stessi e i loro discendenti” Questa la maledizione di Didone che grava sulle sorti dell'Impero Romano e a cui non troppo indirettamente risponde dall'aldilà Anchise spronando “Tu regere imperio populos, Romane, memento”, “Ricorda, Romano, che il tuo destino è di governare i popoli con il tuo potere”. Eppure la minaccia di una donna, in una società schiettamente patriarcale che non pare conoscere troppe vie di mezzo fra Lucrezia e Messalina ma che pure ha conosciuto vividi esempi di potere al femminile, continua a scuotere l'immaginario del buon Civis Romanus.
Prima, in ordine di tempo, fu ancora una cartaginese, Sofonisba, andata in sposa prima a Siface, poi a Massinissa, re numidi, incarnò la fatale seduttrice capace di sobillare gli uomini contro Roma, ma guadagnò il rispetto del nemico per la dignità stoica con cui si diede la morte per non cadere preda dei vincitori.
Pure suicida in condizioni simili, ma di ben altra fama, è Cleopatra, che rappresentò per Roma un pericolo ben più concreto, insidioso e tangibile, non solo un'avversaria militare, ma un'attiva sovvertitrice degli equilibri interni e degli stessi principi della Res Publica: se Cesare veniva visto dagli avversari come un potenziale restauratore della monarchia, la regina d'Egitto si presentò a Roma già come sovrana in pectore, con l'aggravante, lei straniera, di contendere il talamo alla legittima consorte Calpurnia e d'insinuare, soprattutto, l'aborrito modello monarchico orientale con cui già Alessandro Magno aveva scandalizzato molti ellenici, mutuandolo dall'eterno nemico persiano.
Quando, passata la metà del terzo secolo dopo Cristo, un nuovo astro sorge dall'Oriente, pare che getti su Roma le ombre rinate delle regine africane, e Zenobia, la nuova nemica, non sfugge al paragone, anzi si proclama discendente ed erede e di Didone e di Cleopatra.
Non un'emula, però, ché la regina di Palmira rinnova il mito terribile della regina guerriera, ma con tratti e attributi virili che ancor più destabilizzano l'avversario romano. Totalmente aliena dalla sensualità esibita e spregiudicata che caratterizza Cleopatra e Semiramide, Zenobia non pare minimamente conoscere nemmeno la passionalità della pur regale, fiera e virtuosa Didone, né il muliebre contegno di Sofonisba. Con morbosa, stupefatta cura la storiografia ci descrive, e ripete di fonte in fonte, una condotta coniugale degna della più intransigente moralistica cristiana: non più di una volta al mese Zenobia si concedeva al marito, e solo dopo aver constatato che il precedente tentativo non aveva avuto esito a fini procreativi. Francamente, che abbia potuto divenire madre di almeno due figli in queste condizioni ha del miracoloso, e, certo, per tutta la durata del suo regno non si riscontra traccia o allusione alcuna a relazioni. Il suo generale Zabda verrà operisticamente tramutato nell'amato e amante Arsace già nel libretto di Gaetano Sertor per Pasquale Anfossi (Zenobia in Palmira, Venezia 1789-99), ma senza alcun fondamento storico. La storiografia antica e la tradizione medievale, insieme con la singolare bellezza, ne enfatizzano invece i tratti virili di abile cavallerizza e cacciatrice, d'infaticabile marciatrice, la capacità di reggere l'alcol superiore a quella di molti soldati, nonché la robustezza fisica e la voce profonda. Zenobia è a tutti gli effetti una virago che, alla maniera delle amazzoni o delle vergini giurate balcaniche, evita, o limita al minimo indispensabile, ogni commercio carnale, una guerriera tale da portar scompiglio dalla Siria all'Egitto, strappando prima il Regno di Palmira, quindi un intero Impero al dominio di Roma.
L'Historia Augusta si sofferma ampiamente sulle vicende di Zenobia, sia trattando delle vicende di Gallieno e Claudio il Gotico, sia, ovviamente, di Aureliano, e soprattutto nel capitolo sui Trenta Tiranni (Tyranni Triginta), fra i quali trova spazio anche con un ampio paragrafo (il XXX) a lei consacrato e che riportiamo in appendice. Non sembra superfluo notare a margine il successo sinistro del nome dei Trenta Tiranni, dalla breve quanto traumatica esperienza ateniese fino alla forzosa similitudine con una serie, non sempre affidabile sotto il profilo storico, di usurpatori del potere imperiale romano.
Da questa fonte si evince che Zenobia salì al trono succedendo allo sposo Odenato e al di lui figlio di primo letto, rimasti uccisi, come reggente per i figli propri, ancora troppo piccoli, “non muliebriter neque more femineo”, bensì “multis imperatoribus fortius atque solertius” e, ancora, “viriliter imperante”, in aperto contrasto con la debolezza femminea denunciata nell'imperatore Gallieno. Ancora, dopo aver celebrato le abilità venatorie di Odenato (Tyranni Triginta, XIV) l'autore precisa subito che la moglie non era da meno: “non aliter etiam coniuge adsueta, quae multorum sententia fortior marito fuisse perhibetur, mulier omnium nobilissima orientalium feminarum et, ut Cornelius Capitolinus adserit, speciosissima”.
Al contrario del consorte, baluardo del potere centrale romano in Oriente contro l'eterno nemico persiano e moti centrifughi e indipendentisti interni, una volta conquistato il potere, (e l'ambiguità con cui si allude a un suo coinvolgimento nella morte del marito non può non richiamare alla mente il modello di Semiramide), Zenobia, regnante dal 266/7 nel nome del figlioletto Vaballato, si avvicina sempre più alla Persia, intraprende campagne espansionistiche che vanno dall'Egitto all'Asia Minore, da Alessandria ad Ankira. È un momento delicato per l'Impero, che deve affrontare queste e altre forze digreganti interne ed esterne e il problema è tamponato concedendo nel 270 alla regina di Palmira di mantenere i possedimenti acquisiti e, per Vaballato, i titoli ereditati dal padre (imperator, dux Romanorum e corrector totius Orientis). A Zenobia, però, non basta: nel volgere di un anno batte moneta attribuendo a sé e al figlio il titolo di Imperator Caesar Augustus, chiaro segno di sfida nei confronti di Roma, indice di volontà d'indipendenza e dell'ambizione a porsi a guida di un nuovo impero orientale. Aureliano, in questo caso, non può stare a guardare, e, una volta stabilizzata la situazione su altri fronti, interviene massicciamente, riprende i territori conquistati da Zenobia e, infine, riesce a sgominare il suo esercito e a farla prigioniera.
La fine di Zenobia, come appare nelle fonti più antiche e segnatamente nella Historia Augusta,è nell'immaginario romano anche la resa dei conti anche con Sofonisba e Cleopatra: Zenobia, la nemica, la regina d'Oriente, viene condotta in trionfo, cosa che il suicidio aveva evitato alle sue antecedenti, e per di più gravata di gemme e gioielli tali da far vacillare perfino il suo fisico robusto, parodia crudele, benché, forse, involontaria, dello sfarzo della corte egiziana che la sovrana tolemaica esibì nel suo soggiorno nell'Urbe. La fine è dimessa e antieroica: lei, fiera amazzone, virago, regina e guerriera in grado di far tremare Roma e creare, fra i suoi territori, un insidioso impero, è confinata sui colli romani, a terminare i propri giorni nell'anonimato, forse addirittura moglie di un senatore. La terribile regina di Palmira è addomesticata e pensionata come una anziana matrona.
Da notare che, fra V e VI secolo, Zosimo, nella Storia Nuova (Ἱστορία νέα), corregge il tiro e concede a Zenobia di perire prima di raggiungere l'Urbe, pur senza attribuirle l'onore eroico del suicidio, ma adombrando il dubbio che non sia stata colpita da una malattia, lasciandosi invece morir d'inedia. Una soluzione che, ancora una volta, evita sia la scelta virile della morte autoinflitta con una lama sia quella, più tradizionalmente femminile, per avvelenamento. Rinunciare al pubblico ludibrio del trionfo e al triste tramonto romano, non trova, dunque, un'alternativa gloriosa, ma un, se possibile, ancor più flebile spegnersi della scintilla che aveva rischiato d'incendiare un intero impero. Zosimo non si limita a questo: mentre nell'Historia Augusta il confronto fra la regina e Aureliano dimostra un'indomita fierezza ai limiti dell'arroganza ("Quid est, Zenobia? Ausa es insultare Romanis imperatoribus?" Illa dixisse fertur: "Imperatorem te esse cognosco, qui vincis, Gallienum et Aureolum et ceteros principes non putavi. Victoriam mei similem credens in consortium regni venire, si facultas locorum pateretur, optavi.”), nella Storia Nuova la regina invoca a sua difesa la debolezza femminile che l'ha resa facile preda dei fallaci consigli dei suoi cortigiani, fra cui Cassio Longino, che per questo sarebbe stato condannato a morte. Da notare che la Historia Augusta annoverava invece come esempio di deliberata crudeltà di Aureliano la condanna dello studioso, falsamente accusato – non da Zenobia ma da anonimi delatori – d'aver dettato un'impudente lettera della regina all'imperatore (Vita divi Aureliani, XXVI e segg), lettera che l'autore afferma con sicurezza esser stata dettata in siriano e poi tradotta in greco, e quindi senza dubbio concepita autonomamente da Zenobia.
Oscillando fra virtù femminili e muliebri debolezze, qualità e difetti virili, ora reali ora simulati con malizia, gli autori moltiplicano non solo nel racconto della sconfitta e della morte le sfaccettature dell'ombra inquietante e sfuggente dell'imperatrice di Palmira, autentico monstrum esemplare nel bene come nel male, pietra del paragone per le sorti dell'Impero negli ultimi anni dell'Anarchia militare. Non solo rispetto a Zosimo, anche all'interno della stessa Historia Augusta, opera filogicamente tormentata per stesure datazione e attribuzioni, troviamo prospettive diverse nel trattare Zenobia, che assume dunque il carattere di mito proteiforme ma sempre riconoscibile, donna e uomo, orientale e romana, rude e colta. Lo stesso reiterato richiamo a Didone (cui noi, liberamente, associamo l'emula concittadina Sofonisba), Semiramide e Cleopatra significa incastonare decisamente la sovrana di Palmira in una mitologia e in una tradizione letteraria, proclamandone l'importanza storica e simbolica, così il racconto della sconfitta e della caduta, in diverse versioni, rappresenta un ridimensionamento del terrore incarnato dall'eccezione indomabile delle regine guerriere, e segnatamente delle regine nemiche di Roma. Tuttavia, è difficile che la colta Zenobia, allieva e confidente di Cassio Longino, non abbia a sua volta sfruttato, a fini propagandistici, questi precedenti e queste identificazioni (come sostiene Silvia Bussi nella sua analisi numismatica Zenobia/Cleopatra: immagine e propaganda in: Rivista italiana di numismatica e scienze affini. - ISSN 1126-8700. - 104(2003), pp. 261-268)
La conquista di Alessandria, soprattutto, rende quasi inevitabile per la condottiera il riferimento a Cleopatra, e altrettanto inevitabile per Roma l'esercizio retorico, di segno inverso, sul rinnovarsi dell'insidia orientale. E la nuova guerra in Egitto contro la nuova Cleopatra compie ciò che una tradizione aveva malamente attribuito ai soldati di Giulio Cesare: la rovina della Biblioteca. Come Luciano Canfora ha inequivocabilmente argomentato (La biblioteca scomparsa, Sellerio 1986), infatti, non fu la Biblioteca ad andare in fiamme nel 48/47 a. C., bensì un magazzino attiguo al porto, che fra le sue merci contava anche rotoli di papiro e testi destinati all'esportazione. Viceversa è attestato che la guerra fra Aureliano e Zenobia (Ammiano Marcellino, Storie, XXII, 16, 15) devastò l'intero quartiere del Bruchion, ove si trovava la Biblioteca. Il testo latino fa, però, riferimento solo a contese e rivolte conclusesi sotto Aureliano, senza citare esplicitamente l'impresa palmirena: “Sed Alexandria ipsa non sensim, ut aliae urbes, sed inter initia prima aucta per spatiosos ambitus, internisque seditionibus diu aspere fatigata, ad ultimum multis post annis Aureliano imperium agente, civilibus iurgiis ad certamina interneciva prolapsis dirutisque moenibus amisit regionis maximam partem, quae Bruchion appellabatur, diuturnum praestantium hominum domicilium.”
Fra una sovrana poliglotta accompagnata da un consigliere soprannominato “biblioteca vivente”, desiderosa di farsi riconoscere come erede dei Tolomei e imperatrice d'Oriente e un militare di modeste origini che rinsaldò il suo potere e quello dell'impero essenzialmente con la forza delle armi e delle fortificazioni, sembrerebbe perfino scontato supporre chi possa aver usato una qualche cura verso i templi del sapere alessandrino, magari anche trasferendo testi – originali o copie – in patria, e chi abbia messo a ferro e fuoco la città con l'unica preoccupazione di estirpare il pericolo secessionista.
Per Zenobia, che si arroga il titolo di Augustus, veste alla romana, impone come lingua principale di corte il latino, il retaggio culturale è però quello di un mondo cosmopolita che Roma ha ereditato, e sviluppato, dai regni ellenistici. Il suo nome è Septimia Zenobia, è Ζηνοβία, ma è anche l'aramaico Bathzabbai o l'arabo al-Zabba: è cittadina romana, condivide la cultura greca, parla fluentemente tutte le lingue del suo impero, è chiaramente di etnìa araba. Così il figlio porta il nome magnificamente sincretico di Lucius Julius Aurelius Septimius Vaballathus Athenodorus, romano e romanizzato negli ultimi due appellativi, il primo da Wahb Allat, “dono della dea Allat” (nome ripreso e reso maschile, qualche secolo più tardi, da Maometto), il secondo dal greco “dono di Atena”, con una netta influenza di quella religiosità matriarcale di stampo orientale dal quale sorgono, quasi ipostasi della Dea (sia Ishtar, Iside, Atena, Cibele, Artemide, Ecate...), le regine guerriere.
Semiramide, regina di Babilonia, costruttrice di città come Didone, che Diodoro Siculo dice siriana al pari di Zenobia e figlia di una dea (Bibliotheca historica, II, 4), non è dunque solo un modello letterario, ma anche una precisa affermazione di un'identità pure orientale e semitica, una pedina in più su un'ideale mappa d'influenze, l'unica libera da legami con la storia romana. Per Roma, tuttavia, Semiramide non è ignota e rappresenta un ulteriore monstrum degno di rispetto: nel momento in cui, con maligna allusione alla sua risaputa bisessualità (Svetonio, Cesare 22,2), voci in Senato osarono mettere in dubbio la sua virile autorevolezza nella sottomissione delle Gallie, Cesare rispose con pronta arguzia citando le Amazzoni e, appunto, Semiramide, il paragone con la quale non doveva dunque parere men che lusinghiero per lo statista e condottiero, nonché convincente al punto da mettere a tacere la più ostinata malalingua.
Come nella tradizione riferita a Zenobia, la regina di Babilonia presenta attributi virili, essendosi spacciata nei primi anni di regno per il figlioletto Ninia in maniera tanto convincente e con tali esiti sia bellici sia amministrativi da non dar adito ad alcun dubbio sulla sua autorevolezza nemmeno una volta che ebbe svelata la sua natura muliebre. Fra le leggende sorte attorno alla sua figura, peraltro, spicca l'aneddoto pittoresco sull'invenzione della biancheria intima attribuita proprio a Semiramide per impedire il riconoscimento immediato del sesso.
Nel suo caso, però, rinnegare la femminilità e arrogarsi prerogative maschili di regnante e guerriera (come l'egiziana Hatshepsut, che indossava la barba posticcia dei faraoni) significò anche nella tradizione storiografica abdicare alle virtù muliebri di castità, fino a esser così dipinta da Dante (Inferno, V, 54-60):
fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell' è Semiramìs, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che 'l Soldan corregge
Dannata insieme con la regina egiziana, qui sbrigativamente liquidata con “e poi è Cleopatràs lussuriosa”, mentre, fra le due, un paio di versi restano consacrati a “colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo”, Didone, la cui colpa è la passione per la quale avrebbe non tanto mancato di fedeltà a un consorte ormai defunto, quanto commesso il peccato estremo del suicidio, degno d'un qualche rispetto solo quando espressione della stoica dignità di un Catone.
Sulla scorta di entrambe, Zenobia, degna erede, è citata da Petrarca nel Trionfo della fama (II):
; e vidi in quella tresca Zenobia del suo onor assai più scarsa. Bella era, e ne l’età fiorita e fresca; quanto in più gioventute e ’n più bellezza, tanto par ch’onestà sua laude accresca; nel cor femineo fu sì gran fermezza, che col bel viso e co l’armata coma fece temer chi per natura sprezza: io parlo de l’imperio alto di Roma, che con arme assalìo; ben ch’a l’estremo fusse al nostro trionfo ricca soma.
Ancora una volta concentrando l'attenzione sulla sua formidabile castità, e ancora in associazione, questa volta per contrasto morale (fu più scarsa del suo onore, ovvero più gelosa della propria intimità rispetto a loro), con Semiramide e Cleopatra, citate nei versi appena precedenti. Ora, in un contesto etico politico completamente mutato, più che l'aspetto sovversivo della donna guerriera sembra interessi mettere in luce la forza invincibile irradiata dalla virtù della continenza e dalla negazione di ogni lussuria.
Con il medesimo spirito, ma con maggiore ampiezza, seguendo fedelmente la traccia dell'Historia Augusta, della quale realizza praticamente una traduzione, anche Boccaccio consacra un capitolo del suo De claris mulieribus a Zenobia, capitolo che sarà evidentemente di riferimento per Chaucer, che nella rassegna di exempla tragici inseriti in The Monk's Tale dai Canterbury Tales riserva un paragrafo alla regina di Palmira, tratteggiata, però, con un certo qual goliardico sarcasmo, in linea con lo spirito della sua opera. [cfr. appendice]
Ancora nel XVIII Caterina la grande di Russia fu soprannominata Zenobia per le sue attitudini di cavallerizza e condottiera e per la sua caratura intellettuale, e di conseguenza la sua capitale San Pietroburgo fu detta anche Palmira Borealis, la Palmira del Nord. Il mito di Zenobia era ancora vivo, anche se ormai Roma non tremava più al nome suo, di Didone, Sofonisba e Cleopatra. E, ironia della sorte, anche un riscatto per Aureliano, che dal libretto di Antonio Marchi per Albinoni (Zenobia regina de' Palmireni, Venezia 1694, leggi qui il libretto), a quello citato del Sertor messo in musica da Anfossi e Paisiello (Zenobia di Palmira, Venezia 1790 e 1799, Napoli 1790, leggi qui il libretto), fino all'Aureliano in Palmira di Felice Romani per Rossini (Milano 1813, leggi qui il libretto) si trova innalzato a novello Tito, vincitore magnanimo che guadagna la fedeltà dell'Oriente perdonando ai ribelli e riaccogliendoli come alleati.
Zenobia, reina de’ Palmireni, per testimonianza degli antichi scrittori fu di sì eccellente virtù, che per nominanza ella dee essere preposta innanzi alle altre genti. Questa fu primieramente nobile per nazione, perché dicono gli antichi, che ella ebbe origine famosa dai Tolomei, re di Egitto, benché non si ha ricordanza chi fusse suo padre e sua madre. E dicono che questa della prima puerizia dispregiò gli esercizj di donna; e già alquanto cresciuta e fatta forte, per la maggior parte si dice che ella abitò per boschi e luoghi salvatichi, e con l’arco e saette perseguiva i cervi, correndo, e i cavriuoli; e poi fatta più forte veniva alla presa con gli orsi, perseguiva e aspettava e pigliava e uccideva i leopardi e i lioni; e senza paura discorreva per rivi e per altri passi di montagna; cercava le tane delle fiere, e di notte dormiva all’aria; con maravigliosa potenzia comportava la piova, il caldo, il freddo; con somma diligenzia era usata spregiare l’amore e la conversazione degli uomini, e a pregiare la verginità. Per le quali cose avendo cacciato la morbidezza delle femmine, dicono che ella era fattasi robusta, che ella vantaggiava per forza i giovani di sua età in battaglia di balestra e in giuochi. E finalmente essendo venuta a età di matrimonio, per consiglio degli amici, dicono che ella si maritò a Odenato, giovane indurato a simili esercizj, lo quale era molto nobile principe de’ Palmireni. E era questa bella del corpo, benché alquanto bruna di colore, come per lo caldo del sole sono tutti gli abitatori di quel paese: ancora ella avea bellezza di neri occhi, e bianchi denti. La quale vedendo Odenato, intento ad occupare i regni d’Oriente, essendo preso e dannato a brutto servizio Valeriano da Sapore re di Persia; e Galieno suo figliuolo come effemminato stare in ozio; e non avendo dimenticato la prima durezza; deliberò di nascondere la sua bellezza sotto le armi, e usare la milizia sotto suo marito, e con lui prese il nome reale e l’ornamento. E con Erode figliastro avendo raccolto suo sforzo, andò contro Sapore animosamente, il quale già ampiamente occupava Mesopotamia: e non isparmiandosi alcuna fatica, alcuna volta facendo l’ufficio di soldato, alcuna volta di capitano, uccise non solamente quello aspro uomo e esperto, in virtù della battaglia e delle armi; ma fu creduto che, per opera di quella, Mesopotamia venisse sotto sua signoria: e preso il campo di Sapore con le sue femmine, cacciò e persegui quello infino a Ctesifonte. E non molto dappoi ella curò con sollecito studio di soperchiare Quieto, figliuolo di Matriano, il quale sotto il nome di suo padre era entrato nell’imperio di Oriente. E già tenendo insieme col marito quieto tutto l’Oriente, il quale aspettava ai Romani; il marito Odenato, secondo che alcuni dicono, fu morto con Erode suo figliuolo da Meonio suo cugino per invidia. Alcuni altri dicono, che Zenobia consentisse la morte d’Erode, perché molto spesso dannava la sua delicatezza; perchè la successione del regno pervenisse a Eremiano e Timolao, i quali ella avea generati di Odenato. E signoreggiando Meonio, alquanto ella stette quieta; ma dopo brieve tempo essendo morto Meonio dai suoi cavalieri, quasi essendo lasciata la possessione vacua, quella donna di nobile animo subito entrò nella desiderata signoria; e essendo ancora piccoli i suoi figliuoli, ella si presentò vestita a modo di re, e in nome dei figliuoli governò la signoria molto meglio che non si conveniva a femmina, e non vilmente. Perché Galieno e dopo lui Claudio imperadore non ardirono contrastare contro a lei alcuna cosa, né ancora similmente gli Orientali, gli Assirj, nè gli Arabi, nè i Sarracini de’ popoli di Armenia; anzi temendo quegli tutta la sua potenzia, erano contenti poter difendere i suoi confini; perché quella ebbe tanto magisterio di battaglie, e sì aspra disciplina di milizia, che ugualmente i suoi osti la pregiavano e temevano molto. Appresso de’ quali ella non parlamentava mai se non con l’elmo in testa e con armi; molte rade volte usava carretta, e andava spesso a cavallo, e alcuna volta a piè innanzi alle insegne cogli cavalieri tre e quattro miglia; e mai aveva in fastidio alcuna volta bere coi suoi capitani, benché ella fusse sobria, e beveva cogli principi di Persia e d’Armenia che vinceva di piacevolezza e di costumi. Ella fu sì aspra conservatrice d’onestà, che, non che ella s’astenesse al postutto dagli altri uomini, ma eziandio non si congiugneva mai con Odenato suo marito, secondo che ho letto, se non per generar figliuoli, sempre avendo questa diligenzia, che quando era congiunta che ella s’accorgeva se ella era gravida, e poiché questo avveniva, non comportava poi essere tocca dal marito infino alla purgazione del parto; e quando ella s’accorgeva non essere gravida, consentivasi al marito a sua posta. Oh, quanto questa era laudabile opinione di donna! assai appare che ella giudicava che la lussuria per niuna altra cagione è data agli uomini che, rinnovandosi i figliuoli, si conservino quegli che deono venire, e da quello in suso sia un avanzo vizioso. Ma troverai molte rade volte donne di siffatti costumi. Nondimeno acciocché non dimenticasse l’opportune cose della casa, mai non lasciava, o rade volte, entrare dentro alcuni, se non eunuchi, ed uomini gravi d’età e di costumi. Ancora ella visse a modo di reina con magnifica spesa, con quella pompa che usano i re di Persia, e secondo l’usanza di Persia volle essere adornata, e faceva conviti a simiglianza degl’imperadori romani usando quegli vasi d’oro che ella avea uditi usare a Cleopatra. Benché ella fusse grandissima conservatrice di tesoro, niuno fu più magnifico e più largo, dove le pareva che fusse il bisogno. E benché per la maggior parte ella soprastasse in caccie e arme, non mancò che non imparasse le lettere d’Egitto, e ancora in parte le lettere greche sotto Longino filosofo, suo maestro. Per aiutorio delle quali ella vide tutte le storie latine, greche e barbare, con sommo studio, e con mandarle alla memoria, e non solamente questo, ma fu ancora creduto ch’ella riducesse quelle sotto brieve forma. E oltre al suo linguaggio ella seppe quello d’Egitto, quello di Soria; e volle che i figliuoli parlassino latino. Ma, poche più parole al certo: questa donna fu di tanto valore, che essendo vinti Galiano, Aurelio e Claudio imperadore, ella trasse contro a sé Aureliano, uomo di perfetta virtù, essendo egli fatto imperadore, per purgare la vergogna della nominanza de’ Romani, e per acquistare gran gloria. Essendo compiuta la guerra di Marco Mannico, essendo quietato ancora Aureliano con ogni sollecitudine pigliò l’andata contra Zenobia: e andando contro le nazioni barbare, avendo sconfitte nobilmente molte legioni, finalmente arrivò con molte legioni poco lungi da Emessa, città presso alla quale Zenobia non impaurita insieme con Zeba (il quale ella avea preso per compagno della guerra) ella s’era posta col suo oste, e in quel luogo fu combattuta aspramente e per lungo spazio della somma del fatto tra Aureliano e Zenobia; messa in rotta cogli suoi, cioè Zenobia, da Aureliano per la virtù de’ Romani, ridussesi a Palmiro, dove subito ella fu assediata dal vincitore. E non volendo udire alcuna condizione d’arrendersi, difendevasi con maravigliosa diligenzia e sollecitudine, venuta già a necessità delle cose opportune. Poi non pensando i Palmireni contrastare alla possanza d’Aureliano, essendo eziandio sottratti dall’ajutorio di Zenobia quegli di Persia e d’Armenia e i Stracani, i quali venivano in suo aiuto; fu presa per forza quella città da’ Romani. Dalla quale città partita Zenobia colli figliuoli fuggì in Persia sopra i camelli, dove perseguita fa presa co’ figliuoli dalla gente d’Aureliano, e a lui presentata viva: per la qual cosa Aureliano fu glorioso non altrimenti che se egli avesse vinto uno grandissimo capitano, asprissimo nimico della repubblica; e salvando quella al trionfo, menolla a Roma co’ figliuoli. Poi fu apparecchiato il trionfo ad Aureliano maraviglioso per la presenza di Zenobia; nello quale, tra, le altre cose nobili e degnissime di ricordanza, egli menò lo carro, lo quale Zenobia avea fatto fare di grandissimo pregio d’oro e di perle, sperando venire a Roma non prigione, ma donna imperadrice e trionfante, e possedere lo ’mperio di Roma. Dinanzi a quello carro ella, andava co’ figliuoli ed era legata il collo, le mani e i piedi con catene d’oro, con corona e vestimenti reali carichi di perle e di pietre preziose, intanto che, essendo ella fortissima, spesse volte per lo peso stava ferma. E finito il trionfo maraviglioso per lo tesoro, e per la virtù di Aureliano, dicesi che ella invecchiò co’ figliuoli in privato abito fra le donne romane; e fulle conceduto una possessione dal senato presso Tivoli, la quale dappoi per lungo spazio fu denominata da lei Zenobia, non molto lungi dal palazzo del divino Adriano, in quel luogo, che era chiamato dagli abitatori Conche.
Zenobia, regina di Palmira, declamata tanto dai Persiani per la sua nobiltà, era così prode e valorosa nelle armi, che nessuno la sorpassava sia per coraggio che per stirpe o per altra distinzione. Discendeva dal sangue dei re di Persia. Non dico che fosse una bellezza suprema, ma d'aspetto non poteva essere migliore.
Si trova scritto che sin dall'infanzia fuggiva le occupazioni femminili per scorrazzare nei boschi, colpendo a sangue numerosi cervi contro cui scagliava enormi frecce. Era così veloce che in un attimo li raggiungeva. E crescendo imparò ad uccidere leoni e leopardi, ad affrontare gli orsi stritolandoli come voleva fra le sue braccia. Osava perfino esplorare i covi di belve feroci, correva tutta la notte fra le montagne, dormiva sotto un cespuglio, ed era capace di gareggiare in pura forza ed energia con qualunque giovanotto che ne avesse mai avuto il coraggio. Non c'era nulla che resistesse alle sue braccia.
Protesse sempre la sua verginità contro tutti senza mai legarsi ad alcun uomo. Ma alla fine, pur fra molti indugi, i suoi amici la convinsero a sposare Odenato, un principe di quel paese, e si capisce ch'egli avesse le stesse inclinazioni che aveva lei.
Una volta uniti, vissero insieme felici e contenti, perché ciascuno sentiva per l'altro affetto e amore. Ma c'era un fatto: lei non voleva mai acconsentire, a nessun costo, che lui le si accoppiasse insieme per più d'una volta, perché a lei interessava solo avere un figlio, per moltiplicare il mondo. Appena poi poteva accorgersi che non era incinta dopo quell'atto, allora gli permetteva di prendersi quel gusto in fretta, e per non più d'una volta, sicuramente. E se a quella botta rimaneva incinta, lui non doveva più giocare a quel gioco per quaranta settimane intere, passate le quali, sempre per una volta, gli permetteva di fare lo stesso.
Fosse tenero o furente, più di tanto Odenato non otteneva, perché lei sosteneva ch'era solo per lussuria e a vergogna delle donne che in altre occasioni gli uomini si divertivano con loro. Da questo Odenato ebbe due figli che allevò nella virtù e nella sapienza... Ma passiamo ora al nostro racconto. Dico dunque che non c'era al mondo, pur cercando dappertutto, creatura più ammirevole e saggia e misuratamente generosa, più corretta e leale nella lotta e che più sopportasse le fatiche di una guerra. Non si potrebbe mai descrivere la
ricchezza dei suoi arredi, della sua argenteria e delle sue stoffe. Andava completamente vestita di gemme e d'oro e, pur amando la caccia, non tralasciava di studiare a fondo diverse lingue e, appena aveva un po' di tempo, tutto il suo piacere era di apprendere dai libri come spendere in virtù la propria vita. Insomma, per farla breve, sia lei che suo marito furono talmente valorosi, da conquistare in oriente diversi grandi regni, con città bellissime, appartenenti alla maestà di Roma; e riuscirono a tenerli così saldamente in mano che, finché visse Odenato, nessun nemico poté mai scacciarli. Chi avesse voglia di leggere la storia delle loro battaglie contro re Sapore e molti altri, come in realtà si susseguirono gli eventi, perché ella vinse sempre e quali titoli conquistò, e poi la storia delle sue disavventure e della sua rovina, e in che modo alla fine venne assediata e presa, si rivolga a Petrarca, il mio maestro, che di ciò scrisse abbastanza, vi assicuro. Alla morte di Odenato, ella mantenne valorosamente i regni, combattendo a corpo a corpo contro i nemici così spietatamente, che non c'era principe né re da quelle parti che non fosse lieto di trovar grazia presso di lei, convincendola a non guerreggiare sulle sue terre. Tutti stabilivano con lei trattati di alleanza, col patto di rimanere in pace e di lasciarla cavalcare a suo piacere. Neppure l'imperatore romano Claudio, né il romano Galieno prima di lui, ebbero mai il coraggio di sfidarla; nessun armeno, egiziano siriano o arabo osò mai affrontarla in campo, temendo di finire sotto le sue mani o di esser messo in fuga dalle sue schiere. In abito regale, i suoi due figli si avviavano ormai ad ereditare i regni del loro padre: Eremiano e Timolao erano i loro nomi, e già i persiani li acclamavano. Ma, ahimè, la fortuna ha il veleno nel suo miele: per questa potente regina ormai era finita. E dal trono la fortuna la fece precipitare nella miseria e nella sventura. Appena ebbe in mano il governo di Roma, Aureliano infatti decise di vendicarsi di questa regina e si mise in marcia con le sue legioni contro Zenobia e, insomma, per dirla in breve, dopo averla messa in fuga, finalmente la prese e l'incatenò con i due figli e, avendo ormai conquistato tutto il paese, fece ritorno a Roma. Tra le altre cose vinte, c'era anche il cocchio lavorato in oro e pietre preziose che il grande imperatore Aureliano condusse con sé, perché tutti lo vedessero... Ed ecco lei che precede a piedi l'ingresso trionfale, con le catene d'oro appese al collo, la corona che ne indica il grado e le vesti cariche di pietre preziose. Ah, fortuna, colei che una volta faceva paura a re e imperatori ora deve sottostare allo sguardo di tutto il popolo! Ahimè, colei che con l'elmo aveva partecipato ad aspri assalti e con valore aveva conquistato forti città e torrioni, ora è costretta a portare la cuffia; colei che prima reggeva uno scettro di fiori dovrà reggere la conocchia e guadagnarsi la vita filando!