di Roberta Pedrotti
Dal 19 gennaio 2019 Matera è ufficialmente capitale europea della cultura insieme con la bulgara Plovdiv. Una visita al museo archeologico e ai Sassi può essere un'occasione per riflettere sul senso dell'arte come stimolo insito nella natura umana sin dalle origini, sull'incanto di un borgo che nasce dalla miseria più cupa.
Sarà l'abitudine al condono ciclico, sarà la placida tolleranza dell'irregolarità, sarà qualche paradossale contrappasso per la concentrazione di meraviglie artistiche e naturali da cui ci troviamo circondati, fatto sta che in Italia il brutto edilizio prolifera. Costruzioni non finite – in attesa, appunto, di condoni – o semplicemente ecomostri, abusi, disordini urbanistici: edificare il brutto sembra sia un'attività cui l'italiano si dedica con particolare solerzia.
Da Bari a Matera sembra che talora, fra le pieghe del paesaggio rurale, si siano depositati agglomerati incoerenti di cemento, ma fra questi spuntano, come perle, campanili fra il barocco e il moresco, armonici archi di casolari, dettagli incantevoli dell'opera umana nella roccia sedimentaria che qui si usa chiamare tufo. Il selvatico si alterna all'ordinato, l'incontrollato al definito. Il bello circonda il brutto, nel brutto si annida ancora il bello e vien seriamente da pensare a cosa siano, davvero, l'uno e l'altro, a come si pascano l'un l'altro del contrasto con l'opposto.
Il centro di Matera sovrasta i Sassi, le conche un tempo miserabili dove i più poveri ammassavano abitazioni scavate nella roccia in un'esistenza terribile. Ora questo ricordo sopravvive sottile in un paesaggio che incanta il visitatore. Il colpo d'occhio di casupole e viottoli illuminati la sera appaga con l'aria calorosa e rassicurante di un borgo idealizzato; percorrendolo dall'interno si scoprono i dettagli, gli scorci, le prospettive nascoste. Gli accostamenti imprevisti nati dall'accumularsi fitto fitto di abitazioni intrigano i sensi in modo meno lusinghiero, incuriosiscono e sorprendono, come l'allestimento di scultura contemporanea negli spazi antichi, spartani, quand'anche ancora in parte affrescati del MusMa.
È, però, sulla cima, nel borgo nobile, fra i viali e i palazzi che poco o nulla avevano a che spartire con la storia millenaria di miseria dei Sassi, che risaliamo all'origine più antica. Il museo archeologico Ridola ospita reperti dall'alto Paleolitico all'età romana. E lì si racchiude intensissimo l'anelito naturale dell'uomo al bello. Sembra una frase fatta, nonché facilmente demolibile con dozzine di esempi lampanti della relatività dei parametri estetici. Lo vediamo anche qui, a pochi metri, dove con frotte di altri visitatori ci fermiamo incantati ad ammirare quelli che solo qualche decennio fa erano ancora tuguri privi di servizi basilari. E fra queste stesse colline e campagne, fra le più antiche vestigia umane, dopo le selci scheggiate, sono comparsi utensili e vasellame già decorati. L'urgenza del bello non cede il passo a quella dell'utile; piccole incisioni, linee dipinte, applicazioni ininfluenti all'uso si fondono subito all'essenzialità dello scopo. La distinzione del manufatto avviene attraverso l'estetica e senza nemmeno un primo istinto d'imitazione che magari possa far pensare anche a qualche riferimento totemico, magico, religioso. No, le primissime decorazioni non sono tratte dalla natura, sono già astratte, geometriche, appaiono perfettamente fini a se stesse, frutto puro dell'immaginazione. Poi, con il tempo, ecco le prime sagome umane, animali, vegetali, o, a impreziosire il vasellame, musetti di suini e ranocchie. Poi ritratti, scene più complesse, pitture vascolari che sembrano allestimenti teatrali, con l'azione circoscritta in una scenografia ben definita. Non tutto è bello, alto, nobile in questa oggettistica, ma anche grottesco, osceno, scatologico, e noi lo ammiriamo; là fuori ammiriamo oggi l'incanto suggestivo della tragica miseria di ieri, eleviamo a bello ciò che come bello non è stato concepito e recepito in origine e quel che in origine era recepito e concepito come bello magari ci pare ingenuo, elementare. Non si tratta di vacuo relativismo, di una piatta equivalenza d'impressioni che valgano l'una come qualunque altra; si tratta del movimento perpetuo della civiltà, della percezione, dei contesti di fruizione. Quel che resta sempre al centro dell'attenzione, che stimola a riflettere anche chi nonè studioso storico e critico dell'ambito specifico, è l'importanza fondamentale del superfluo: dell'effetto sui sensi, del significato di un'esperienza al di là della sostanza concreta, utile pratica. Scegliere un motivo geometrico o naturalistico per distinguere un recipiente, sedersi con altri umani per ascoltare un canto, osservare un centro abitato e non pensare solo se sia solido e funzionale.
Ricerchiamo sempre il senso del bello e del brutto, che ci sfuggono mescolandosi e cambiando nel tempo, costringendoci a riflettere sempre sul significato dell'arte nel nostro dirci umani e civili. Quel significato sta già lì, in quelle linee parallele dipinte su un piattino in un villaggio lucano dell'età della pietra, là dove il miserabile è divenuto meraviglioso, il bello continua a mescolarsi al brutto, il naturale all'artificiale, l'antico al nuovo.
Oggi che Matera è capitale europea della cultura, potrebbe essere l'occasione per riflettere proprio sull'essenza della contraddizione perenne della creazione umana, non sul paesaggio da cartolina, ma sulla storia che ce l'ha regalato, sul suo significato più profondo, sul valore di quell'intangibile "superfluo" che ci rende esseri umani.