Una riflessione sulla tradizionale trasmissione del Concerto di Capodanno da Vienna, riconferma della vitalità culturale di una capitale stimolante, profonda, sorridente.
Nella presentazione al Neujahrskonzert der Wiener Philharmoniker 2019 [leggi] abbiamo raccontato velocemente degli anni in cui Vienna si impose nella Mitteleuropa come indiscutibile centro culturale, come la città intellettualmente più feconda per la novità e l’innovazione del pensiero. Oggi a centocinquanta anni dall’inaugurazione dell’imponente edificio dell’allora Wiener Hofoper, ancora una volta Vienna si manifesta rilucente, non più solo alla Mitteleuropa, ma ai cinque continenti, nella sua unicità di superpotenza culturale. Non teme rivali per concentrazione di istituzione, di incentivi al progresso, allo studio, alla crescita che animano l’ex capitale asburgica. Vienna, non più potenza politica e militare, concentra ancor più la sua grandezza nella cultura, ma, badiamo bene, non si tratta della superiorità di “una” cultura, poiché questo sarebbe sinonimo di ignoranza, ma “della” cultura, di quella sintesi di pluralismi culturali che si sintetizzarono nella capitale austriaca e le garantirono una ritrovata prosperità anche dopo il dramma della seconda guerra mondiale.
Non c’è autocompiacimento, schiavitù dell’immagine, della pubblicità: è una dimostrazione sobria, fatta di efficienza, contenuti, ragionamento, nozionismo e (perché, no?) tradizionale vis polemica fra le differenti correnti di pensiero, unite assieme verso il faro della conoscenza e del progresso. Tale sobrietà non è comune alla concorrenza che si proporrebbe di scalzare dal trono Vienna e la crescente unicità di una città, priva di autentici competitori. Anzi, potrebbe far pensare a un rilassamento qualitativo, tant’è il distacco nell’amore e nel sostegno alle scienze e alle arti. Non è così e non si ottiene una crescita qualitativa tale se si sprecano energie a guardare gli altri. L’apogeo della cultura si ottiene per il piacere di farlo, per se stessi, senza pensare a un innegabile primato; senza invidiare, senza incolpare gli altri di eventuali mancanze, senza l’incessante, ossessiva, ricerca di una crescita interiore.
In questo gennaio 2019, al Musikverein, Vienna si è mostrata al mondo ancora più splendida del solito, in controtendenza con il decadimento culturale che accomuna numerose nazioni vicine e lontane alla piccola Austria. Con la sua direzione, l’esordiente Christian Thielemann si erge nell’olimpo dei più grandi interpreti del Neujahrskonzert der Wiener Philharmoniker, omaggiando straordinariamente il gusto musicale della dinastia degli Strauss (e degli autori a loro contemporanei) e restituendo al pubblico della sala e ai telespettatori di tutto il mondo la gioia dell’interpretazione che delle partiture dei compositori viennesi seppero dare Carlos Kleiber o l’immenso, indimenticabile, Willi Boskovsky.
Del programma abbiamo detto nell’articolo di presentazione e ora giunge il momento di apprezzare la certosina cura dei dettagli musicali che Thielemann ha chiesto e ottenuto dalla Filarmonica di Vienna. Pensiamo, per esempio, all’attacco dell’Egyptischer Marsch, op. 335 e alla ricchezza dinamica che questa sublime orchestra ha nel suo perfetto bagaglio tecnico: percepibili perfino nelle trasmissioni radiotelevisive un pianissimo fra i più belli e una modulazione nell’intensità del suono magistrale, fino ad arrivare all’apoteosi impetuosa e al canto dei medesimi professori d’orchestra, deliziosamente autoironici (e mai autocompiaciuti) nel corso di tutto il concerto. Da pelle d’oca, per precisione tecnica e intensità intepretativa, l’interpretazione da parte di Thielemann del rubato nell’Entr'acte Valse di Josef Hellmesberger, come nel Sphärenklänge. Walzer, op. 235 di Johann Strauss.
Se si leggono con attenzione le partiture dei compositori che fecero grande la musica da ballo dei salotti asburgici, non si può far a meno di notare la spontaneità della sospensione emotiva data dalle chiusure in levare, quasi a lasciar l’armonia a mezz'aria, figlie di quel grande ritmo ternario che fece del Walzer viennese lo specchio della mentalità di una società amante del mistero, dell’inconoscibile, dell’occulto, del sapere. Tutto resta sospeso, il terzo tempo del Walzer e quel rubato continuo, incessante, nevrotico, che Thielemann è stato capace di rendere come pochi altri prima di lui.
Il sogno fu emblema di scienza e arte a Vienna ed è quel sogno che un artista vive nella sua malinconia, nella sua solitudine e nelle sue aspirazioni. Le coreografie di Andrey Kaydanovskiy restituiscono tutto questo, mutando gli ambienti che siamo abituati a frequentare nei corridoi della Wiener Staatsoper in autentici palcoscenici di fiaba. Non una banale coreografia, ripresa da una telecamera, ma un’opera d’arte compiuta, grazie alla maestria della regia della ORF (la televisione nazionale austrica), che coglie perfettamente gli aspetti geometrici di una danza che non è solo un balletto, ma diventa forma d’arte innovata e rinnovata, rimanendo eguale a se stessa. Vienna non è mai uguale a se stessa e, al contempo, non cambia mai, immutabile e cangiante, conservatrice e progressista. Tutto al tempo stesso. Dei due balletti un’immagine sopra le altre resta impressa negli occhi dei telespettatori: una coppia di ballerini in un ambiente buio che si scopre essere semplicemente parte del moderno palcoscenico del teatro nazionale che, alzandosi, eleva gli artisti alla realizzazione del sogno di ieri e di oggi, mostrando la sala della Wiener Staatsoper, pronta ad accoglierli, a omaggiarli e a giudicarli.
Thielemann non rinuncia al lato scherzoso, assieme alla sorridente orchestra. Si presenta con un tight impeccabile e una cravatta che, con le sue righe gialle e nere, sembra rammentare, in omaggio al luogo, i colori delle antiche insegne dell’impero asburgico; chiude il concerto celiando rivolto al pubblico sia in An der schönen blauen Donau, Walzer, op. 314 di Johann Strauss Sohn, sia, e soprattutto, durante la concertazione (ai piedi del podio) della Radetzky-Marsch, op. 228 di Johann Strauss Vater.
È un segnale magnifico di come, in uno dei momenti più bui dal dopoguerra, Vienna, sappia offrire una magistrale lezione di cultura al mondo, ancora una volta, conscia degli errori del passato e forte di un’anima intellettuale che da anni (a riprova che la cultura è esistenza pratica) le consente di essere prima città al mondo per qualità della vita.
foto Benedikt Dinkhauser