Molte sono le leggende metropolitane che circolano intorno ai grandi compositori, fra fraintendimenti, aneddoti più o meno credibili o autentiche illazioni. Una tendenza particolarmente insidiosa è, però, costituita dalla pretesa di sostenere la "volontà dell'autore" attraverso citazioni isolate dal contesto e applicate a sproposito.
La calunnia è un venticello insensibile, sottile, ma proprio per questo letale e inarrestabile: lo si sapeva bene duecento anni fa, lo si è sempre saputo. Le bufale, le false notizie, le insinuazioni son sempre esistite, certo, e alcune sono particolarmente longeve e coriacee, tanto che ora che la diffusione capillare delle informazioni via social pone il problema anche politico, sociale e sanitario dell'attendibilità delle fonti e dell'analfabetismo funzionale
In ambito musicale, il caso eclatante è, naturalmente, quello di Mozart, la cui vita e soprattutto la sua morte è stata subito aureolata di romantiche leggende che hanno favorito il fiorire di immagini romanzesche, preparando terreno fertile per ogni sorta di dilettantesca mistificazione.
C'è però anche il caso di Rossini, che in prima persona giocò con la maschera che gli veniva attribuita e si atteggiò consapevolmente a icona di se stesso, mentre circolavano sul suo conto aneddoti più o meno pittoreschi e fantasiosi. Molti di questi perdurano ancor oggi, e non si parla tanto di episodi come quello della composizione di «Di tanti palpiti» durante la cottura del risotto, dopotutto simpatica metafora della facilità di scrittura del nostro che si cita senza necessariamente doverne fare dogma di fede. Si parla dell'immagine complessiva di conservatore, gaudente, poltrone per un uomo viceversa, complesso, modernissimo, afflitto da vari disturbi e nevrosi. Si parla anche di tutte le leggende fiorite intorno alla prima del Barbiere di Siviglia e al circolare inveterato di accuse ai sostenitori di Paisiello quando non allo stesso anziano maestro [Leggi I duecento anni del Barbiere di Siviglia].
Esiste però un altro tipo di bufala, una trappola più sottile e insidiosa: la trappola delle citazioni, degli estratti parziali che danno l'illusione di conoscere un testo e un autore, come se bastasse sapere che Renzo e Lucia alla fine si sposano nonostante Don Rodrigo per dire di aver letto I promessi sposi o se bastasse aver ascoltato «Sì vendetta» e «La donna e mobile» per disquisire di Rigoletto.
C'è in primo luogo la questione dell'attendibilità, giacché chiunque, con una connessione internet, può far dire qualunque cosa a chicchessia: una foto, una frase a effetto con una firma importante, non importa se autentica, click, il post è fatto. Sia Voltaire, Pertini o Jim Morrison, eccolo proclamare ideali e massime di vita quotidiana a nostro piacimento. E già in questo caso è difficile e non sempre fruttuoso spiegare pazientemente, ogni volta, che Voltaire non ha mai scritto, né risulta abbia pronunciato, quella frase sul morire pur di far esprimere qualsiasi opinione o che Pertini mai si è sognato di incitare alla violenza con “mazze e pietre”. Quando, poi, la citazione effettivamente esiste ed è corretta il problema si fa più serio, perché la frase isolata mantiene l'autorevolezza dell'autore, ma estrapolata dal contesto può essere distorta nel suo significato, può ingannare. Può essere un inganno strumentale, volontario, di chi utilizza una frase a effetto per rafforzare il potere persuasivo della sua causa attribuendole involontari sostenitori, ma può essere un autoinganno inconsapevole da parte di chi magari si convince della bontà di un'idea desunta da un'affermazione malinterpretata ignorandone ragioni e contesto.
Verdi, da questo punto di vista, è forse il musicista più bersagliato; quantomeno in Italia l'aneddotica e l'epistolario verdiani sono saccheggiati alla ricerca di affermazioni da utilizzare a corroborare questo o quell'aspetto di un'attualità che, ovviamente, il buon Peppino non poteva conoscere. La sua schiettezza, la sua fermezza nel gestire le questioni artistiche e il suo interesse per la politica indubbiamente aiutano nella ricerca di prese di posizione preziose, spesso acute, sempre oneste e decise, che dovrebbero essere studiate con attenzione e non isolate per applicarle poi a proprio piacimento là dove ci fa più comodo.
Trovare padri nobili per le nostre idee e opinioni è senz'altro una forte tentazione, ma bisognerebbe fare attenzione a non presumere troppo, illudendoci di esser portabandiera della volontà altrui. La volontà dell'autore è una chimera pericolosa da seguire se non si prendono bene le misure del tempo, dello spazio, delle esperienze che dall'autore ci separano. La riflessione su ciò che Verdi (o Bellini, o Donizetti) voleva è questione delicata, complessa, passibile di diverse interpretazioni, ma, in assenza di comprovate capacità di comunicare con l'aldilà, supporre di sapere per certo cosa direbbe di ciò che non poteva conoscere è pura speculazione fantasiosa, materia per divertirsi nello stile delle Interviste impossibili. Cosa, insomma, che non andrebbe presa troppo sul serio, come invece la smania dell'improvvida citazione lascia troppo spesso intendere.
Facciamo degli esempi arcinoti. «Torniamo all'antico e sarà un progresso»: ecco una frase che è diventata motto di qualsivoglia laudator temporis acti. Ma Giuseppe Verdi era un laudator temporis acti? Decisamente no: era, anzi, un uomo che non temeva di scandalizzare e sperimentare per seguire i suoi ideali, un uomo pronto a mettere in scena “un gobbo che canta” (e che canta cose serissime), una prostituta, un potente stupratore, una congiura di palazzo con omicidio in scena. Verdi studia tutte le innovazioni di illuminotecnica e scenotecnica, rielabora le forme divenute convenzionali, s'ingegna per sfruttare al meglio ogni mezzo, nel suo teatro musicale, per essere al passo con i tempi, rinnovarsi, creare. È questo un conservatore ancorato al passato? No, è l'uomo onesto, intelligente e concreto che, quando una riforma dei programmi di conservatorio propone di limitare lo studio della polifonia e del contrappunto, fa un ragionevolissimo discorso sull'importanza della conoscenza, della tecnica, della storia, sulla consapevolezza del passato per poter progredire. E l'argomentazione culmina con quel «torniamo all'antico e sarà un progresso». Un consiglio didattico sempre valido, e che magari dovrebbero tenere a mente le persone che incorniciano una citazione isolata senza interrogarsi sul discorso in cui si inseriva, sulle ragioni che l'hanno motivata e sui riferimenti che contiene. Certamente una nostalgia Verdi la esprime, ed è per la scuola rigorosa del suo buon maestro Lavigna, che gli imponeva severi esercizi di contrappunto classico, ma anche di frequentare il teatro per esser sempre aggiornato. Tutto qui, però: «torniamo all'antico e sarà un progresso» non è un proverbio da applicare a ogni situazione invocando la "volontà" di Verdi.
Un'altra citazione verdiana che – molto a sproposito – tende a tornare periodicamente di moda è la clausola che Verdi propose a Ricordi di inserire nei contratti di noleggio delle sue opere: «Allo scopo di impedire le alterazioni che si fanno nei teatri alle opere musicali, resta proibito di fare nelle mie opere qualunque intrusione, qualunque mutilazione, insomma qualunque alterazione che richiegga il più piccolo cambiamento, sotto la multa di 100 franchi che io esigerò per qualunque teatro ove sarà fatta l’alterazione.»
Siamo nel 1847, l'anno della prima stesura di Macbeth, vale a dire del primo incontro con Shakespeare e di un punto di arrivo fondamentale nel percorso di Verdi drammaturgo musicale. Siamo in un momento storico in cui il diritto d'autore ancora non esiste, ma comincia ad affermarsi il concetto di repertorio: le opere circolano, vengono riprese anche in assenza degli autori e riadattate sovente a piacimento dei cantanti, secondo le risorse dell'impresa. In questi anni è in attività, per esempio, il contralto Dionilla Santolini, che fa della Federica di Luisa Miller un cavallo di battaglia interpolando un'ampia sortita dalla Saffo di Pacini. Verdi, che tanta cura andava ponendo nella scelta dei soggetti, nello sviluppo drammaturgico, nella ricerca di una “tinta”, nel far sì che ogni nota “bella o brutta che sia” avesse “un senso”, questo Verdi poteva soffrire che un cantante inserisse un'aria di baule a suo piacere, sostituisse un numero musicale con un altro, facesse rappresentare un atto isolato di un'opera avulso dal contesto? Certo che no. Verdi nel 1847 si rende conto che il mondo dell'opera sta cambiando, ma che permangono alcuni usi passati negli arbitri dei cantanti e contro gli usi passati si pronuncia. Storicamente sappiamo bene che per alcune piazze la censura avrebbe imposto alterazioni ancora per diversi anni, e Verdi non doveva esserne certo felice, ma aveva anche sufficiente senso pratico per valutare i termini della battaglia caso per caso. Giustamente Philip Gossett, nel suo Dive e maestri, proprio in riferimento alla clausola invocata contro le «qualunque intrusione, qualunque mutilazione, insomma qualunque alterazione» ricorda che prese di posizione del genere si stavano avanzando già da qualche tempo anche da altri autori e che da un lato dimostrano l'affermarsi dell'idea dell'opera come un qualcosa di compiuto in sé, dall'altro rappresentano semplicemente una rivendicazione economica dei propri diritti artistici.
Verdi si riferisce a episodi ben precisi in un contesto ben preciso, più di centosettanta anni fa. Possiamo attribuire queste stesse parole così puntuali e cricostanziate al contesto attuale, completamente mutato, a un sistema teatrale e a figure professionali che allora non esistevano nemmeno? Possiamo immaginare che questo riciclare una sua affermazione potrebbe ben essere valutata dal burbero Verdi un'alterazione e un'intrusione, tanto più che ben inserita nel suo contesto storico e a esso solo riferita l'affermazione verdiana ci dice molto più, risulta molto più interessante che mutata in generica invettiva contro questo o quell'interprete attuale.
Un'altra citazione che meriterebbe più rispetto e consapevolezza è «Io non posso ammettere, né nei cantanti, né nei direttori la facoltà di creare, che come dissi prima, è un principio che conduce all'abisso», tratto da una lettera a Ricordi dell'aprile 1871. Qui fa dapprima riferimento ai cantanti che, nei tempi passati, «si permettevano di creare (come dicono ancora i Francesi) le loro parti e farvi, in conseguenza, ogni sorta di pasticci e controsensi». Il bersaglio sono evidentemente i capricci dei divi che pretendono d'intromettersi nella composizione di un'opera (vexata quaestio già dai tempi del Teatro alla moda di Benedetto Marcello), puntando anche in senso più ampio il dito verso l'arbitrio dell'interprete che cerchi il facile effetto. Sceglie come esempio esplicito le scelte di Angelo Mariani come direttore, censurando un Fortissimo inserito da questi nella sinfonia della Forza del destino. Conviene allora ricordare che, se i rapporti con Mariani nella primavera del '71 non si sono ancora definitivamente rotti, sono comunque già incrinati e il tono di Verdi deve essere anche messo in relazione a una crescente antipatia destinata a trasformarsi in astio e netto rifiuto. Ciò chiarito, e circonstanziato quindi meglio il tono dell'accusa e di una disapprovazione ad personam, appare evidente la stizza di Verdi verso una concezione dell'opera non come teatro in musica di senso compiuto, ma come ribalta per vanità e facili effetti. La condanna, peraltro, all'atteggiamento di alcuni interpreti e il ribadire in sostanza il concetto espresso ai tempi di Rigoletto («e dico francamente che le mie note o belle o brutte che siano non le scrivo mai a caso e che procuro sempre di darvi un carattere») non significa annullamento della personalità dell'interprete e del suo contributo. Non dobbiamo cadere in atteggiamenti manichei e abbracciare un aspetto della riflessione verdiana come un assoluto. In altri punti dell'epistolario verdiano abbiamo documentato il suo interesse e la sua disponibilità verso i cantanti, come quando scrive a Marianna Barbieri Nini che sarà ben disposto ad aggiustare la parte di Lady Macbeth secondo le sue caratteristiche vocali. Nella lettera del 1847 al soprano, dopo una serie di raccomandazioni e indicazioni sul carattere del personaggio, conclude rassicurando «Io non ricordo bene se Ella ha facilmente il trillo: io l'ho messo ma nel caso è subito levato. [...] Nei pezzi che le mando ora badi semplicemente alla tessitura (non alla musica, la quale difficilmente si potrà capire dalla sua particella) mi sappia dire qualche cosa e se vi fosse qualche passo incomodo me lo accenni prima d'instrimentare.» E, ancora, è provato che finanche in Otello la frase «Quella vil cortigiana ch'è la sposa d'Otello» viene riscritta mettendo in luce lo squillo in acuto di Tamagno, con una soluzione che risulta ben più incisiva della prima stesura: Verdi non rifiuta mai di scrivere per la voce e con la voce, ma sempre per creare musica che sia teatro e non effetto.
Dunque, le citazioni verdiane, così pragmatiche, se contestualizzate e messe in relazione ci restituiscono un uomo di genio, estremamente coerente ma non monolitico, avverso all'arbitrio, integro nei suoi principi, ma anche saggiamente aperto e all'occorrenza elastico. Sicuramente studiare gli scritti di Verdi ci possono insegnare moltissimo su come interpretare le sue opere, ma ci insegnano anche - se letti con consapevolezza - che non possono arbitrariamente piegati fuori dal loro ambito preciso. Sarebbe cercare un facile effetto con associazioni arbitrarie.
E poiché spesso le citazioni verdiane riferite agli arbitri e ai capricci dei cantanti e dei direttori, o al sistema dei teatri in vigore un secolo e mezzo fa, vengono senza colpo ferire sovrapposte a interpretazioni e situazioni odierne, un po' di chiarezza si potrebbe fare con uno sguardo più consapevole anche sulla storia della messa in scena. Figure anche di spicco - si pensi a Torelli, ai Bibiena, a Sanquirico - che si occupassero dell'aspetto teatrale e spettacolare dell'opera sono sempre esistite: l'opera è rappresentazione scenica e l'azione, "effetti speciali compresi", ha sempre avuto un ruolo determinante, ovviamente secondo gli stili e i gusti delle diverse epoche. Verdi si interessa direttamente alle questioni sceniche e quando cura i debutti delle sue opere, durante le prove, si preoccupa il più possibile della recitazione dei cantanti così come di scene e luci. Ne sono chiari esempi la tempesta e l'alba di Attila, le apparizioni di Macbeth, solo per fare esempi eclatanti sul piano tecnico. Quando, però, comincia la sua carriera di operista, Verdi si confronta con imprese teatrali che detengono un repertorio di fondali standard (carceri, paesaggi, palazzi...) che possono essere riciclati per più titoli, mentre la creazione ex novo è riservata per lo più a eventi speciali. Quando i suoi lavori cominciano a circolare senza il suo diretto controllo è possibile e anzi probabile che non solo qualche cantante tagli arie e ne inserisca altre a suo piacimento, ma che anche qualche impresario risparmi con scene, costumi e luci raffazzonati. Verdi, che comincia ad avere una concezione dell'opera in musica più unitaria e vicina alla sensibilità moderna pensa alle "Disposizioni sceniche": sostanzialmente noleggia con la partitura musicale anche l'allestimento (in forma di istruzioni e bozzetti), per essere certo che sia curato adeguatamente e pensato proprio per quell'opera. Un'idea pratica nel momento storico in cui viene concepita, di cui può rimanere valido il principio: Verdi vuole la massima cura sia per l'interpretazione musicale sia per quella teatrale. Tant'è vero che, sempre al passo con i tempi, il 27 aprile 1891 scrive a Boito: «La Scala ha bisogno assoluto di un direttore di scena di molta capacità. Non vi è mai stato in quel teatro, ma le esigenze sceniche attuali lo domandano imperiosamente» e nella minuta della stessa lettera fa riferimento alla «scena così come verrebbe imposta da un Régisseur». Insomma, nota che il teatro sta cambiando, che la figura del regista si sta cominciando ad affermare nel senso moderno e pensa che l'opera non debba rimanere indietro. Non dice altro, non offre tavole della legge per tutti gli interpreti e gli spettatori in saecula saeculorm.
Pratico e concreto, Verdi affronta le questioni quando queste si presentano, parla dei fatti, delle esigenze effettive, osserva l'evolversi dei tempi. Voler cercare nelle sue parole una profezia di benedizione o anatema specifico sulla contemporaneità non può che essere un fallimento: meglio cercare di capire meglio la sua epoca, la sua esperienza, la sua personalità nel suo contesto. Meglio evitare di vivere di citazioni isolate, ma approfondire, comprendere, mettere in relazione, così da non fermarsi all'apparenza di un giudizio travisato da un oggetto all'altro, ma da comprendere il succo del discorso e quindi i suoi principi sempre validi. Così, invece di falsificare la citazione per costruirci un castello di carte concettuale, potremmo trovare la consapevolezza per una riflessione originale e ben altrimenti fondata.