di Gina Guandalini
Anche attraverso le testimonianze storiche di artisti e studiosi, Gina Guandalini propone alcuni appunti e spunti per una riflessione sul regista fiorentino scomparso il 15 giugno 2019.
Dopo i miei due titoli sulla Callas e su Pavarotti, nel 2010 l’editore Armando Curcio mi richiese una “tripletta”: uno studio su Franco Zeffirelli. Portai avanti, pungolata dalla loro redazione, una serie di interviste: con Franca Valeri – che ha conosciuto “Zeff” fin dai primissimi anni ’50 – con Samuel Ramey, con Stefania Bonfadelli e con Marilyn Horne – tutti e tre suoi interpreti verdiani - , con Richard Bonynge, con Urbano Barberini, con lo storico della danza Alberto Testa, con il regista Stefano Vizioli, con lo storico dell’arte Mario Gori Sassoli, e con molti altri. Non se ne fece nulla. La Armando Curcio decise che, essendo il grande regista ancora vivo, il testo non rientrava nei loro progetti. Esso giace ancora nel mio cassetto, o più esattamente nel mio PC. Vorrei quindi sottolineare qualche punto non frequentemente discusso a proposito di questo indiscutibile genio del teatro e del cinema.
Al regista fiorentino si devono due autobiografie: una in inglese, nell’83, parecchio “autocensurata”, e una molto più ampia e sincera, ventun anni dopo. La comparazione è molto interessante per ciò che voleva far sapere di sé al pubblico inglese all’indomani del film della Traviata con Teresa Stratas e ciò che ha narrato ai suoi compatrioti quando la sua carriera era, presumibilmente, in dirittura d’arrivo.
Non ancora quarantenne Zeffirelli acquisiva una dimensione internazionale portando in scena Shakespeare a Londra e a Stratford-on-Avon con luminosità, idee nuove e autorità. Veniva dall’opera come scenografo e costumista, e poi come regista; aveva una concezione pittorico-visuale dell’arte italiana in generale e del Rinascimento in particolare che nella patria di Shakespeare cominciava ad essere assimilata alla letteratura elisabettiana. Parlava inglese correntemente fino dall’adolescenza; ed è anche questo gli ha aperto le porte della fama mondiale.
Godette infatti di un vantaggio di cui ancora oggi ben pochi italiani godono, e che quasi tutti sottovalutano: poteva spiegare al soprano Joan Sutherland e all’attore Richard Burton le sottigliezze di un’interpretazione, discutere al telefono con il direttore artistico dell’Old Vic e con Lee e Susan Strasberg, elaborare una sceneggiatura insieme a Tennessee Williams, a Edward Albee, a Laurence Olivier.. Quando Londra, la swinging London dei favolosi anni Sessanta, diventava il centro del mondo per vitalità, freschezza e innovazioni culturali, lui era quasi l’unico italiano, era là, in prima fila. Proponeva un progetto francescano a John Lennon, otteneva la partecipazione di Elizabeth Taylor o di Glenn Close a un film, abitava a Hollywood come a casa sua, Se il suo successo in campo teatrale e cinematografico è stato planetario questo è avvenuto anche perché è stato in grado di comunicare a tutti i livelli con il mondo angloamericano.
Negli anni ‘60, con Amleto e Romeo e Giulietta di Shakespeare, La lupa di Verga con Anna Magnani, Dopo la caduta di Arthur Miller con Monica Vitti e Chi ha paura di Virginia Woolf? di Albee con Sarah Ferrati, Zeffirelli invase il teatro di prosa. Ma in Italia, se fu indiscutibile il successo di pubblico, la critica fu invece ostile quasi in toto a questa maniera di fare teatro, giudicandola troppo popolare e vistosa, sospettando, come sempre, che ci fosse dietro l’odiata opera lirica a prestare a Zeffirelli stile e procedimenti, colore e vitalità.
L’intervento zeffirelliano, al contrario, fu spesso innovativo. Si è sempre analizzata la celeberrima, iconica Tosca Callas-Zeffirelli del 1964 come tappa finale e rinnovamento nella carriera della Callas: ogni elemento di novità di questa Tosca viene dunque attribuito alla formidabile elettricità dell’artista greca, che la regia si limiterebbe ad assecondare con grande intelligenza. Dall’analisi del video del II atto – l’unico rimasto - , invece, balza in prima linea anche la concezione zeffirelliana di Tosca, che porta intelligentemente avanti la storia interpretativa e la rende più accetta al gusto moderno. È nota l’idea che il regista avrebbe insinuato alla Callas durante le prove: Floria Tosca si sente fisicamente attratta da Scarpia, dalla sua «aura», dall’erotismo che il suo potere emana, e lo uccide per salvarsi non da lui ma da se stessa. Che il vero parallelo suggerito da Zeffirelli fosse Scarpia-Onassis, e dunque che Maria non sapesse scegliere i suoi uomini, è cosa che riguarda il gossip e non la storia. La vicenda di Sardou e Puccini viene quindi deviata sul binario di un’attrazione morbosa, di una sessualità distorta di entrambi i protagonisti del secondo atto. Siamo in pieno sadomaso. La lettura zeffirelliana rinnovava quindi totalmente la concezione tradizionale della sensualità pucciniana. Ricordiamo una critica che il musicologo Rodolfo Celletti rivolse al timbro callasiano nell’analisi della Tosca discografica 1953: «Avremo sempre il legittimo dubbio che sia affetta da un male inguaribile: l’asetticità sessuale». La Tosca del 1964 apparteneva a tempi nuovi: non era sessualmente asettica; era piuttosto fragile, confusa, contorta e nevrotica.
Nell 1981 Zeffirelli, che si era riletto il romanzo originale di Henri Murger, decise che la sua pucciniana Mimì doveva essere fin dal suo ingresso in scena pallida, febbricitante, tubercolotica, e perciò già condannata. Sapeva che un tempo si attribuiva ai malati di tubercolosi una carica erotica e passionale fuori del comune (anche Thomas Mann, ne La montagna incantata, che è del 1924, accetta questo mito); diventare amanti di ragazze esangui, dal comportamento febbrile, presentava quindi un’attrattiva morbosa. Teresa Stratas, in quel 1981, poteva incarnare una Mimì tisica; magrissima, tutta occhi, dal colorito livido, non bella ma intrigante, Franco le contrappose il Rodolfo esuberante e – all’epoca – sanissimo di José Carreras.
Novità non dissimile fu Il lago dei cigni alla Scala nell’85, presentato come nuovo e diverso: nell’edizione scelta, nella coreografia di Rosella Hightower, nella regìa di Zeffirelli e nella presenza della giovane protagonista Alessandra Ferri: come la Stratas livida e allucinata nel viso, estatico-onirica nelle movenze, un vero quadro di Vrubel.
Dopo tante Traviate – per prima la Callas, nel ’58 a Dallas: “Sei stata l’amica e la collaboratrice e la compagna di lavoro più straordinaria che si possa desiderare. Non credo che nella carriera e nella vita troverò mai più nessuno come te” le scriveva da Roma a cose fatte – nel 2000 Zeffirelli volle mettere una scena “la Traviatina”, chiamandola così per le piccole dimensioni della messa in scena nel teatro di Busseto. Giovanissima, graziosissima, esile, Stefania Bonfadelli non debuttava nel ruolo di Violetta, ma fece tesoro di quella esperienza. E ricorda: “non mi ha mai fatto mancare una frase gentile nei momenti difficili e mi faceva sentire stimata, apprezzata, speciale: questa è la verità, senza sconti o sdolcinatezze. Ogni volta che lo sentivo ero sempre sorpresa e lieta di vedere il suo sguardo ironico e lucido sul mondo”.
Dall’immediato dopoguerra a pochissimi anni fa Franco Zeffirelli si è dedicato allo spettacolo con enorme professionalità e vasta cultura.. Le sue concezioni del teatro, dell’opera lirica e del cinema potevano piacere o non piacere, ma per tutti sono state sinonimo di bellezza, quella bellezza che è ormai in pratica sconosciuta ai giovani, educati come sono sistematicamente al fragore e all’orrido. È stato uno dei primi a riscoprire – insieme a Visconti e alla Callas – il melodramma italiano del Settecento e del primo Ottocento, con la sapienza di un architetto e di uno storico e un gusto dettagliatissimo e un infinito rispetto per i suoi collaboratori: scenografi e scenografe, costumisti sempre di alto livello. Quando l’opera barocca era una categoria sconosciuta e disprezzata, lui l’ha presentata in concezioni registiche che possono fare testo ancora oggi.
Zeffirelli citava volentieri Jean Starobinski, psicanalista, critico e storico svizzero di lingua francese, che ha detto: «Le opere servono solo per proiettare i fantasmi personali di alcuni registi; questi cercano di imprimere il loro marchio senza nemmeno darsi la pena di leggere e capire il senso di quello che volevano dire librettista e compositore". In quest'ottica, spiega Starobinsky, gli autori originali sono presi in ostaggio dai registi e il pubblico finisce per assistere, anziché all’opera, a una vera e propria parodia. E fu il regista stesso a dichiarare «Vedo lo spettacolo come emozione globale di una magia che si offre al pubblico: si alza il sipario e vedi un quadro che si anima di luce e di tutto quello che ci deve essere. La storia deve camminare con le cose che vedi, non ci deve essere un conflitto come avviene nel teatro d’oggi, una bestemmia dopo l’altra.»