di Gina Guandalini
Nel centenario dalla nascita di Federico Fellini, un ricordo del grande regista attraverso il suo rapporto con la musica, dal sodalizio perfetto con Nino Rota all'amicizia con Virginia Zeani e Nicola Rossi Lemeni.
Leggi anche: La regia d'opera mancata di Federico Fellini
Nato a Rimini nel 1920 da padre romagnolo e madre romana, Federico Fellini è immediatamente osservatore del suo prossimo e caricaturista. Da bambino è appas sionato dei fumetti di Little Nemo, dell’americano Winsor McCay; e non scappa di casa per andare non al circo, come vuole una persistente leggenda, ma al cinema. Ha appena compiuto diciotto anni che gli vengono pubblicate una quindicina di vignette comiche nientemeno che da La Domenica del Corriere. Si trasferisce a Roma non come “norditaliano” nello sconosciuto Sud, ma ospitato da parenti della madre e da quest’ultima accompagnato. Si iscrive a Giurisprudenza per obbedire ai genitori, ma l’unica cosa che vuole è diventare giornalista. E infatti da subito collabora al Marc’ Aurelio, creando rubriche satiriche molto seguite, e alle sceneggiature dei film di Macario. Tra il ’41 e il ’43 è attivissimo come autore dell’EIAR, dove conosce Giulietta Masina. Si sposano nel ’43 e hanno un bambino che sopravvive solo un mese.
Nel cinema si cimenta anche in soggetti sentimentali e patetici. L’arrivo degli americani a Roma porta una magnifica ventata di anarchia, di progetti pazzi: Fellini apre un negozio di caricature per soldati statunitensi e turisti, e si accosta al cinema neorealista con collaborazioni di vario tipo. Nel tragico episodio di Porto Tolle in Paisà di Rossellini è assodato che è lui a dirigere una scena. Collabora ancora con Rossellini nell’episodio Miracolo del film L’Amore, e lo fa insieme all’autore torinese Tullio Pinelli. Poi Fellini è sceneggiatore di film di Pietro Germi e Antonio Lattuada. Insieme a quest’ultimo condivide la regia di Luci del varietà nel 1950, sull’argomento dell’avanspettacolo, che gli è molto caro. Ma è un insuccesso commerciale che pone fine all’amicizia dei due registi.
A partire da Lo sceicco bianco nel ’52 Fellini è despota assoluto al timone della realizzazione cinematografica; cambia dialoghi, stravolge scene, fagocita la narrazione, impone la sua sigla sarcastica e onirica. Durante la preparazione del film chiede a un tizio che aspetta l’autobus davanti alla Lux Film quale bus stia aspettando. L’ometto dice il numero e Fellini lo informa: “Non passa affatto da questa zona”. In quel momento arriva proprio l’autobus con quel numero. Forse quell’ individuo ha poteri magici, pensa Fellini, e approfondisce la conoscenza. Si tratta del compositore milanese Nino (Giovanni) Rota.
Nino Rota è immerso fin da piccolo in un ricco ambiente musicale e la sua casa è da sempre frequentata da Ildebrando Pizzetti, Alfredo Casella, Arturo Toscanini. Èquest’ultimo che lo spedisce a studiare negli Stati uniti a diciott’anni sotto la guida di Rosario Scalero, docente di composizione, insieme a un altro talentuoso suo coetaneo, Gian Carlo Menotti. Per “staccarli dal cordone ombelicale”, dirà Toscanini. Scalero preferirà Menotti e un altro promettente allievo, Samuel Barber. Nel ’32 Rota scrive a Casella “Il mio inverno americano mi è parso proficuo. Con Scalero, dopo parecchi alti e bassi, ci siamo lasciati abbastanza in buona”. Rota, però, diventa quasi subito compositore di musiche da film. Dal 1933 collabora alla Lux Film, una delle case cinematografiche più importanti di quegli anni. Lì hanno lavorato anche Pizzetti e Petrassi. Nel 1942 un film di Raffaello Matarazzo, Il birichino di papà, ha le musiche di Nino Rota.
Si stabilisce subito tra Federico Fellini e Nino Rota un sodalizio artistico indistruttibile, che solo la morte del musicista nel 1979 concluderà. “Quando sono andato a casa sua la prima volta”, ha ricordato il regista, “mi ha presentato subito la mamma e poi il pianoforte, al quale si è seduto suonicchiando un motivo che già aveva preparato. Era il tema di Lo Sceicco Bianco. Questo prima ancora che io confusamente gli dicessi che desideravo avere la sua musica, se aveva tempo e voglia di farla. Quel motivo struggente che suonava Nino andava già benissimo”.
Dopo I vitelloni del ’53, La strada nel ’54 segna l’affermazione del fellinismo più completo; e il motivo per tromba e violino dedicato da Rota a Gelsomina-Giulietta è personaggio a sé. A questa affermazione cinematografica corrisponde un’appassionata liaison tra la Masina e Richard Basehart, che la moglie Valentina Cortese ha lamentato sia durata ben quattro anni; anche durante la lavorazione di Il bidone. Che le donne di Fellini siano numerose è cosa che nel mondo del cinema nessuno ignora; sua moglie invece conserva a lungo la reputazione di “angelo”.
Nino Rota collaborerà con i maggiori registi del suo tempo, Visconti per Senso e Il Gattopardo, Zeffirelli per La bisbetica domata e Romeo e Giulietta, Francis Ford Coppola per Il padrino e Il padrino – parte II. Ma il rapporto con Federico Fellini è rimasto specifico, paradigmatico. Sono entrambi disinteressati alle arti altrui, per cui uno è estraneo, quasi ostile all’arte dell’altro. Rota avrà la fama di addormentarsi durante le visioni degli stessi film per cui deve creare le musiche (o è un’invenzione felliniana?); Fellini non ascolta mai musica al di fuori dell’ambito cinematografico. Si crea il rapporto ideale. Dice il regista: “Non è che io suggerisca i temi musicali perché non mi intendo di musica. Comunque, siccome ho idee abbastanza chiare del film che faccio in ogni dettaglio, il lavoro con Rota si svolge proprio con la collaborazione della sceneggiatura. Io sto vicino al pianoforte e Nino sta al piano e gli dico esattamente quello che voglio. Posso dire che è forse tra i musicisti cinematografici il più umile di tutti, perché veramente fa una musica, secondo me, estremamente funzionale. Non ha la presunzione e l’orgoglio del musicista che vuol far sentire la sua musica. Si rende conto che la musica di un film è l’elemento marginale, secondario, che può solo in certi momenti essere protagonista, ma in genere deve solamente spalleggiare”. Si sa che il grande regista si commuoveva invariabilmente all’ascolto della sequenza cromatica del tema di Amarcord.
A sua volta Rota ha lasciato detto “Federico è un ‘ispiratore’, anche se questo termine potrebbe risultare banale. È uno che sa costantemente stimolare grazie alla sua sensibilità e alle sue intuizioni che spaziano in molteplici campi, anche in quello musicale dove riesce sempre a capire le diverse situazioni, le cose giuste al momento giusto. Quando uno ascolta un pezzo di musica che gli piace, e poi quello stesso pezzo piace alla maggior parte delle persone, tutto questo significa ch’egli ha una buona sensibilità. E nel suo caso, questa capacità spazia dal campo visivo a quello sonoro e alla stessa scelta degli attori. In questo è formidabile perché sa capire con grande immediatezza le persone, gli esseri umani, cosa c’è di interessante in loro”.
Fellini ha detto sempre di aver paura della musica perché si sente ricattato, strozzato da questa cosa che gli scatena emozioni che non può controllare. E si proclama incompetente in materia, legato a certi vecchi motivetti, di cui si è nutrito durante l’infanzia e l’adolescenza, che rappresentano il suo angusto orizzonte musicale. La Titina, ad esempio, che è la traduzione italiana di Je cherche après Titine, successo francese del 1917 che Chaplin canta in mock Italian ossia grammelot nel film Tempi moderni; la marcia L’entrata dei gladiatori del boemo Julius Fuĉik; In un mercato persiano dell’inglese Albert William Ketelbey; la canzone Abat-jour e alcune rumbe, grandi successi degli anni ’30. Sonorità commoventi e un po’ kitsch. “Si vede che devono essere stati dei motivi traumatizzanti per me. Non so spiegarmelo, si ripropone sempre il solito mistero: perché una nota, seguita da una pausa, e poi da un'altra piccola nota, deve strangolarti di emozione? A che cos'è che allude? Di che cosa parlano? Perché la musica ha questa immediatezza, ti fa arrendere? A meno che non serva in un mio film e possa controllarla, io la evito. Bussa a una porta che uno preferisce tenere chiusa, a una stanza segreta. Sono convinto che alla fine della vita, se ci fosse concesso di dire qualche cosase uno fosse completamente sincero,uno direbbe una canzonetta”. In un’altra occasione Fellini dichiara che la causa della sua paura della musica risale al trauma subito ascoltando troppo da vicino i timpani durante una rappresentazione di I cavalieri di Ekebù di Zandonai.
Ma qui si impone un briciolo di incredulità. Chi scrive ha sempre avuto in antipatia il termine “affabulatore”, finchè una serata di racconti del giornalista Vittorio Emiliani mi ha convinta che effettivamente ci sono persone capaci di creare mondi paralleli. Paolo Villaggio ha lasciato su Fellini confessioni importanti: “Io sono presuntuoso, ho sempre avuto la quasi certezza di essere superiore a tutti nella brillantezza del discorso, anche nell’ironia cattiva di tipo anglosassone. Con Federico per la prima volta nella vita ho capito che lui dopo in po’ mi distanziava... Fingeva di ascoltarti, e poi partiva lui: non ti ascoltava più, con i suoi racconti cominciava a volare. Ho capito d’avere di fronte un avversario irraggiungibile: volava a dei livelli che non ho mai avvertito al mondo in nessun altra persona.” Villaggio sembra anche suggerire che, per esempio, i prodigi dell’impressionante veggente Gustavo Rol siano, almeno in parte, una narrazione felliniana. E anche il mito di Rota come persona dotata di poteri paranormali è portato avanti dal suo regista: “Nino arriva in stazione, monta sul primo vagone che incontra ed è esattamente quello che lo condurrà a destinazione a Milano, a Bari, a Roma, a Torino, dovunque sia diretto, per una coincidenza che lascia trasparire contorni paranormali.”
"La musica è pericolosa, mi turba, preferisco non sentirla: per me è un'invasione, come una possessione, agisce ad un livello così profondo che ci si può andare in guerra, si possono esaltare le folle. Avverto nella musica questa minaccia, un risucchio pericoloso. Forse c'è anche qualcos'altro, ecco: la musica ha anche qualcosa di ammonitorio, nelle sue leggi perfette, evocate ed espresse, queste leggi sottili, allude ad un regno che non puoi abitare, mi pare anche che abbia qualcosa di moralistico, che ci vuole ammonire. Che richiama un mondo celeste, perfetto. Io voglio essere imperfetto, sgangherato, voglio vivere come un cane che va ad annusare i cartocci a destra e sinistra”.
Nel marzo ’59 cominciano le riprese di La dolce vita: confuse, affastellate, stravolte, soggette a cambiamenti dell’ultimo minuto (alla sostituzione di un attore collabora perfino Pasolini). Ma nella mente del regista tutto è chiarissimo. Il successo è planetario, il cinema e la vita di Fellini non saranno più la stessa cosa. Uguale miscela di occhio impietoso e suggestioni oniriche dominano Otto e mezzo, per il cui finale Rota tira fuori l’inno nazionale della marcetta da circo che oggi è nei repertori di tutte le orchestra classiche.
Nel 1963 il soprano Virginia Zeani e il marito, il basso Nicola Rossi Lemeni, comprano un terreno a Fregene (sul mare, a est di Roma e a nord dell’aeroporto di Fiumicino; nel 2014 la pineta viene intitolata a Fellini), per costruire una casa di vacanza. Federico e Giulietta hanno già un terreno a circa trecento metri da quella dei due cantanti. I Fellini conoscono Fregene da più tempo, e alcune riprese di Le notti di Cabiria (1957) con alberi secolari, piantati già nel ‘600 da papa Clemente IX, sono state girate sul terreno poi comprato da Nicola e Virginia. Con Fellini e la Masina il soprano e il basso diventano amici e a Fregene passano molto tempo insieme. Le case sono vicinissime, si trascorrono in gruppo Pasqua, Natale e Capodanno. Gli incontri avvengono soprattutto a casa Rossi Lemeni perché è più spaziosa, e si mangia bene. Virginia ricorda Federico come un uomo estremamente versatile. “Era difficile avere una conversazione seria con lui, sosteneva il dialogo ma era assente, si vedeva chiaramente che la sua mente stava da un’altra parte. Aveva un mondo interiore immenso, ricchissimo, soltanto suo, che lo assorbiva del tutto. A me non dava fastidio perché vi ero in qualche modo abituata – anche Nicola era talvolta assente nello stesso modo. Sarà stata questa la ragione per cui hanno subito stretto amicizia. Parlavano molto, degli argomenti più diversi: religione, occultismo, letteratura, arte ed altro ancora. Federico era un sognatore assoluto, senza limiti. Il suo entourage era formato soprattutto da personalità del mondo del cinema. Si incontrava frequentemente con Vittorio De Sica, che è stato spesso anche nostro ospite, e con Mastroianni”. La seducente Virginia «personifica la bellezza del soprano d’opera», dice di lei Fellini. In una lettera confessa che la guarda al mattino, di nascosto, dalla finestra della sua villa, mentre lei vocalizza. Dall’altro lato di villa Fellini ha casa il giornalista e commediografo Salvato Cappelli, che secondo Tullio Kezich è “cavalier servente” della Masina per molti anni, causando in Federico una certa gelosia.
La Zeani ricorda un episodio singolare: l’opera a Fellini non piaceva. “La accettava, ma diceva che era qualcosa che non lo affascinava. L’opera era incomprensibile per lui e non cercava neanche di capirla. Con fatica l’ho portato una volta all’opera, a vedere me e Nicola in I racconti di Hoffmann”(nell’aprile 1964). Gli è piaciuto come abbiamo cantato, si è complimentato con noi, ma si vedeva chiaramente che non gli piaceva l’opera. Mi sono sempre chiesta come mai una persona con tanta ricchezza interiore, con tanta immaginazione, non fosse affascinata dalle storie raccontate nelle opere, dalla splendida musica delle opere. Non lo so. Credo che non si desse tempo per pensare ad altro se non al cinema, e la musica era, per lui, solo musica di film. Era prigioniero senza scampo dei propri pensieri. Ed è per questo che divenne famoso. Aveva spesso degli accessi di reclusione, non voleva vedere nessuno”.
È noto che la storica notte dal 20 al 21 luglio 1969, quando l’uomo atterra sulla luna, villa Rossi Lemeni ospita i coniugi Fellini e Lina Wertmüller per assistere all’emo zionante cronaca televisiva.
C’è poi una narrazione tipica dello stile felliniano: “ho tentato di imparare a suonare il pianoforte. Il primo insegnante era un vecchietto, però io avendo già 40-45 anni non mi riconoscevo più con la giusta disinvoltura e umiltà nel ruolo di scolaretto, quindi le sue insistenze di allargare le dita, etc.. mi davano noia e ho lasciato perdere. Quindi ho pensato che se avessi avuto una maestra molto avvenente, avrebbe potuto spingermi ad una maggior attrazione e regolarità. La maestra c'era ed era avvenentissima, era di Ferrara, una bellissima signora. Non abbiamo quasi suonato niente, quasi mai…”.
È ancora Paolo Villaggio a stupirsi davanti a Fellini: “non ho mai conosciuto un’intelligenza creativa come la sua. Ha avuto un merito speciale in tutti i suoi film, soprattutto in Amarcord: ha evocato per tutti, anche per me, modi di fare, di parlare che avevo completamente dimenticato e vissuto nell’infanzia, e poi accantonato. Tutto in Fellini è evocazione dell’infanzia. Nella notte in cui in Amarcord aspettano di fronte a Rimini, nelle barche, il passaggio del Rex che da Trieste va fino a Genova e poi in America, il Rex è visto in una maniera che avevo dimenticato completamente. Una mattina con la nonna e con mio fratello sono alla foce del fiume Foce di Genova, a un certo momento sento “uuuuuuuuuh” Nel film si sente urlare “il Rex, il Rex !”, nel mio passaggio del Rex c’era la stessa luce magica, da sogno, che non è la realtà. Compare una montagna nera, alta mille metri, questa è stata l’impressione, questo è il ricordo ed è quello che mi ha restituito Fellini. Quell’immagine dimenticata lui me l’ha fatta rivedere e riscoprire. Ha girato in studio davanti a una enorme parete nera con dei piccoli oblò invisibili, poi una striscia bianca e dopo la striscia bianca un fumaiolo tricolore: era bianco rosso e verde il Rex di Fellini, passa e va via. Il Rex che ho rivisto io è lo stesso di Fellini. Senza gente a bordo, disabitato, una montagna nera disabitata, come un mostro preistorico, un brontosauro che poi scompare e noi siamo rimasti tutti lì come i personaggi di Amarcord. Federico ha avuto la capacità di farti rivivere delle immagini dell’infanzia che avevi completa mente dimenticato, le avevi reinserite nella realtà e le avevi ridimensionate, rovinate, erano diventate quasi abituali. Ma tutto in Amarcord è ricordo”.
Uno sguardo obliquo e singolarissimo sul melodramma del ‘700 e sui castrati ci offre Casanova di Fellini, tutto girato all'interno dei teatri di posa di Cinecittà, con la laguna e il Tamigi fatti di sacchi di plastica. Viene chiesto a Fellini di contrapporre il suo film al coevo Barry Lyndon di Stanley Kubrick, girato totalmente in esterni. "Kubrick ha dilatato il Settecento in inquadrature vastissime”, spiega, “io invece ho fatto l' inverso, l'ho compresso in ambienti piccoli"[. Il Casanova è tuttora incompreso, forse anche per la luce grottesca, oscena che getta sui cantanti d’opera. Chissà se Fellini conosce Capriccio di Strauss o ha sentore dell’ostilità con cui certa cultura europea guardava al canto e al melodramma. “Non capisco una parola, me è il mio film preferito in assoluto”, commenta su YouTube una spettatrice di lingua tedesca.
Scomparso Nino Rota durante le fasi finali del montaggio di Prova d’orchestra (capolavoro totale, da rivedere e rivalutare), nella carriera di Fellini c’è un interregno per quanto riguarda le musiche. La città delle donne è affidata a Luis Bacalov, mentre la colonna sonora di E la nave va è firmata da Gianfranco Plenizio.
C’è da chiedersi se ai due vicini “operistici” Zeani e Rossi Lemeni il regista non abbia fatto, così sornionamente, senza parere, molte domande sulla Callas e sul suo culto. Perché nel 1983 E la nave va potrebbe essere il prodotto di un team di appassionati melomani callasiani. È anche un incrocio tra Titanic e Hellzapoppin’ con più di un tocco alla Jonesco. I brani di Verdi, Schubert, Čajkovskij, Strauss che punteggiano la singolarissima storia non sono certo scelti da un intellettuale estraneo alla musica.
Bellocchio, Monicelli e i Fratelli Taviani si sono già giovati delle musiche del giovane compositore e direttore romano Nicola Piovani quando nell’85 Fellini lo chiama per Ginger e Fred. Il film è dedicato al Cavalier Fulvio Lombardoni, proprietario di molte Tv commerciali. Ricorda Piovani: «Con le parole Fellini ha cercato di spiegarmi quello che voleva: una colonna sonora che potesse portare gli attori fin in uno studio di varietà di una tv commerciale. Le parole che Fellini associava a questo luogo erano: orrore, cinismo, imbecillità, volgarità, disgusto e arroganza. ‘La musica– mi disse- dovrebbe suonare qualcosa di simile alle musiche banali che, in genere, accompagnano questo tipo di show televisivi. Hai presente quelle musiche gaglioffe, che alludono a un’allegria un po’ falsa e un po’ insulsa? Quelle musiche che danno un malinconico senso del vuoto per la loro ripetitività e che raccontano praticamente solo la noia pomeridiana domenicale dei finti sorrisi con la loro melensa vacuità; con un’orchestrazione magniloquente e inutile.’ Per poi concludere: ‘Oh, mi raccomando, fammela bella la musica!’»
Partner musicale anche nell’ultimo film di Fellini, La voce della luna, Piovani ammette che a volte la musica ha dei limiti: "Quel film era pieno di disperazione. Bisognava cercare un tema musicale che esprimesse altra cosa. Perché la musica non ha alcun ruolo nella disperazione. In quello stato dello spirito meglio che la musica può il silenzio”.
Il 25 ottobre 1990, Rai Stereo Due trasmette il programma Studio 2 nel quale parlano a ruota libera e senza interruzioni Fellini e Lucio Dalla. Il regista ricorda: “La prima volta che ti ho visto, ti ho visto in una visione un po' infernale, un po' come la discoteca nel mio ultimo film La voce della luna". Sono entrato e in mezzo a un gran fumo, ti ho visto in fondo a un palco. Davanti c'era una platea urlante, stridente, mandavano urla e strida come pipistrelli dai decibel irraggiungibili... laggiù c'eri tu, dietro una tastiera con il tuo cuffiotto in testa. Sembravi un'immagine salgariana, un corsaro, un pirata, un Sandokan, tanto più che i clangori che partivano dalla tua tastiera potevano sembrare delle bordate, delle cannonate. Ho visto che controllavi la situazione, eri tu che scatenavi quell' entusiasmo questa marea di urla, anche un po’ isteriche, gioiose sempre… Una battaglia navale…i tuoi spettacoli, sono un po’ medianici, ho visto che lì scatenavi e, nello stesso tempo, dominavi questa dimensione magmatica, misteriosa, viscerale, veramente un’invasione, com’è sempre la musica…”