L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Sotto la luna di Mehta

di Francesco Lora

Nelle recite di Turandot al Maggio Musicale Fiorentino, il ‘direttore onorario a vita’ ha ormai rango di co-autore della partitura, mentre qualche ruga sembra spuntata all’allestimento di ventisette anni fa, con regìa di Zhang Yimou. Nella compagnia di canto: Olga Maslova, Seok Jong Baek, Valeria Sepe e Simon Lim.

FIRENZE, 24 aprile 2024 – Corre il centenario della nascita di Giacomo Puccini, sicché nel Maggio Musicale Fiorentino di quest’anno, con tre opere in cartellone, Jeanne Dark di Fabio Vacchi, in “prima” assoluta (14-18 maggio), deve vedersela con l’ombra che le fanno, prima e dopo, Turandot (21 aprile - 3 maggio) e Tosca (24 maggio - 8 giugno). Questa seconda avrà la concertazione del direttore musicale in carica, Daniele Gatti, e un allestimento nuovo, con regìa di Massimo Popolizio: ammesso che i già affissi manifesti abbiano qualcosa da spoilerare nella grafica, si tratterà di un’ormai ineludibile trasposizione in un totalitarismo degli anni Trenta. Turandot fa allora da complementare sugli stessi due fronti.

Zubin Mehta, sul podio, ha ormai rango di co-autore della partitura, tanto la conosce a fondo, e con quella sua strana carica di ‘direttore onorario a vita’ illustra, a ogni passaggio di più giovane collega, che l’unico vero dominus musicale, a Firenze, nonché il più longevo e indiscutibile in Italia, è egli: nessun altro. L’orchestra e il coro del MMF, con lui, non solo si mostrano come eccellenti, ma anche si trasfigurano e pretendono medaglie dallo stesso critico che nel mese precedente non si è fatto mancare i loro colleghi della Scala, della Fenice e di Santa Cecilia, la Staatskapelle di Berlino e quella di Dresda, fino ai Wiener Philharmoniker (a proposito: inutile cercare concorrenza estera ai cori italiani). È anche e soprattutto grazie a queste maestranze che la Turandot di Mehta rimane abbacinante e rimbombante, coloratissima e inconfondibile, insuperabilmente uguale a sé stessa. Anzi no: a ottantotto anni compiuti il 29 aprile, il maestro raggiunge il leggio a passetti faticosi, sì, ma appunto nulla ha perso in fatto di lucidità e vigore di lettura; c’è addirittura del nuovo: tempi più indugianti, impasti più alonati, timbri più lunari, le percussioni in un piano più avanzato, l’esotismo della scala pentatonica che sembra erodere, tanto si fa spazio nel martellare la mente, il più confortevole melodiare lungo quella eptafonica; una concezione, insomma, ammodernata in modo vigile e spontaneo, nella quale l’unico disturbo deriva precisamente da un vezzo obsoleto: quello d’interrompere la continuità del flusso, dopo le pagine solistiche maggiori, per cedere il campo all’applauso del pubblico.

Qualche ruga sembra invece spuntata, malgrado l’affetto che gli si porta, allo storico allestimento fiorentino del 1997, con regìa di Zhang Yimou, con scene e costumi di Gao Guangjian, Zeng Li e Huang Haiwei, e con coreografia di Chen Weiya: il marchio è quello dell’artefice di Lanterne rosse, pellicola che però si fa sempre più lontana dall’orizzonte dei numerosissimi giovani nell’esauritissima sala, mentre l’iconografia cinese è quella autentica, col difetto però di sembrare meno fiabesca e intramontabile della sua barocca reinvenzione à la Franco Zeffirelli.

Passati i tempi di Giovanna Casolla e Jane Eaglen, Giuseppe Giacomini e Sergej Larin, Cristina Gallardo-Domâs e Barbara Frittoli, oltre che archiviato con rigorose economie il milionario buco di bilancio accumulato dalla fondazione lirica, la compagnia di canto schierata in questo 2024 non è una parata di stelle, ma ha il pregio di presentare artisti cui ci si dovrà verosimilmente sempre più affidare nei prossimi anni: la sonora, tagliente, pragmatica, impassibile e un po’ fissa Olga Maslova, impegnata con ostentata, russa franchezza nella parte eponima, cui ella tornerà il 29 giugno all’Arena di Verona; il timbrato e omogeneo Seok Jong Baek, l’ultimo Calaf ascoltato al Metropolitan di New York, che invoca ‘Turandò’ anziché ‘Turandot’, ma nella ‘scena degli enigmi’ sfoggia il Do sopracuto; Valeria Sepe, la quale alleggerisce a più non posso il proprio calibro lirico in vista di Liù, e Simon Lim, poco sfumato ma assai solido nel borbottare che fornisce al vecchio Timur; Lodovico Filippo Ravizza, Lorenzo Martelli e Oronzo D’Urso, che costituiscono il trio di Ping, Pong e Pang con freschezza giovanile e impegnata coesione, senza però poter ancora vantare il caratterismo di più maturi colleghi; infine Carlo Bosi, che nei panni dell’Imperatore Altoùm – si pronuncia così – è appunto l’immediata dimostrazione vivente del più maturo caratterismo all’italiana, sorretto dalla sua tecnica specifica e dalle astuzie del mestiere.


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