L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Lobe den Herrn

di Luca Fialdini

Lunghi applausi per l’inaugurazione della XXII edizione di Anima Mundi che ha visto protagonisti Trevor Pinnock e i complessi della Slovenian Philharmonic Orchestra and Choir

PISA – Un felicissimo esito per il concerto d’apertura di Anima Mundi, la rassegna internazionale di musica sacra dell’Opera della Primaziale Pisana giunta quest’anno alla sua XXII edizione, coronato da una calorosa accoglienza. Il primo dei sette concerti in cartellone ha condotto il folto pubblico nella cornice della Cattedrale di Pisa per trovare sul podio il direttore artistico Trevor Pinnock, sul leggio la Sinfonia n. 2 “Lobgesang” di Felix Mendelssohn-Bartholdy.

Come sottolineato nel testo di Daniele Spini nel programma di sala, il rapporto tra Mendelssohn e la “grande forma” non è del tutto sereno, anzi: quello della forma – specialmente nel macrocosmo della sinfonia – rappresenta un cruccio per l’autore che ha licenziato la Prima a soli diciannove anni. Il nodo della questione sembra rappresentato dal fatto di voler dire una parola nuova sulla forma della sinfonia senza però apportare radicali modificazioni alla forma stessa: un approccio drasticamente diverso da quello di Beethoven che la scardina o da quello di Brahms che pazientemente la ricostruisce, al contrario è molto più vicino alle istanze dell’amico Schumann e come questi, con pazienza e con fatica, riesce a trovare la propria strada percorrendo sentieri meno evidenti.

In sintesi, l’opera di Mendelssohn può essere considerata un consolidamento della forma della sinfonia post Nona beethoveniana andando a cristallizzare alcune caratteristiche che diventeranno poi connotati comuni del sinfonismo ottocentesco, ad esempio l’acquisizione dello Scherzo in sostituzione del Minuetto e di preferenza posto al secondo movimento invece che al terzo, la canonizzazione della struttura in cinque movimenti suggerendo allo stesso tempo una grande duttilità del concetto di “movimento sinfonico” al di là delle più rosee previsioni della forma-sonata.

Il paragone con la Nona di Beethoven nel caso del Lobgesang è quanto mai appropriato dato che la partitura di Mendelssohn si presenta come una rielaborazione originale del modello antecedente di soli sedici anni. Se da una parte questa Seconda sinfonia viene presentata in soli due movimenti, dall’altra questa divisione è mera apparenza perché il lungo primo movimento ne cela tre al suo interno, identificati dalle tre indicazioni agogiche: Maestoso con moto, Allegretto un poco agitato (lo Scherzo come secondo movimento, appunto) e Adagio religioso; il secondo movimento, nonostante la suddivisione in nove numeri musicali, va assolutamente considerato come un unico blocco. Il risultato è una sinfonia in quattro movimenti, tre esclusivamente strumentali e un quarto con l’aggiunta di voci soliste e coro, esattamente come avviene nella Nona. La differenza visiva è rappresentata proprio dal raggruppare i primi tre movimenti sotto una sola indicazione e lo spezzettare il quarto in più numeri (cosa che Beethoven si guarda bene dal fare), oltre al fatto che i tre movimenti iniziali hanno una dimensione molto più contenuta dei corrispettivi beethoveniani, mentre viene posta in maggior rilievo la sezione con il canto: la bipartizione della sinfonia ha proprio lo scopo di evidenziare – almeno idealmente – l’importanza della parte vocale.

Un ultimo elemento deve essere soppesato ancora in termini di nomenclatura e cioè il rapporto tra i numeri musicali in cui Mendelssohn ha suddiviso il suo lavoro. Il fatto che si parli apertamente di arie, cori, corali e duetti è un richiamo alla forma della cantata ed esattamente come accade nella cantate (bachiane, ad esempio), l’introduzione strumentale prende il nome di Sinfonia. Il risultato di questo procedimento è un ibrido tra sinfonia e cantata, tra musica secolare e sacra, dove assumere una posizione piuttosto che un'altra diventa problematico: la stessa etichetta di «sinfonia» non è davvero corretta e pone l’oggetto sonoro in una prospettiva imprecisa se non addirittura ingannevole; è senz’altro più corretta quella fornita dal compositore stesso di «sinfonia-cantata».

Un lavoro problematico reca con sé un approccio problematico, specie una creatura dai bordi frastagliati, dai contorni imprecisi e sfuggenti come il Lobgesang. Pinnock risolve il problema non risolvendolo: il direttore britannico è fedelissimo alla partitura e al suo spirito, leggendo la pagina precisamente come una sinfonia-cantata, quindi nel segno della compenetrazione tra i due generi. Nella Sinfonia (cioè il primo movimento) sono presenti degli accorgimenti che preparano il terreno alla componente sacra, ad esempio un uso oculatissimo degli ottoni che richiama da vicino le ance d’organo, così come nella seconda parte l’orchestra non viene intesa come mero sostegno o accompagnamento al canto. In buona sostanza, si è stati testimoni ancora una volta di quel meraviglioso equilibrio che rappresenta la cifra del Pinnock direttore. Tutto è accuratamente ragionato ma senza farne avvertire il peso durante l’esecuzione.

Si percepisce in modo chiaro che molto è stato fatto anche nei confronti della risposta acustica della Cattedrale: non c’è rigidità nell’orchestra né alcuna costrizione nelle sonorità, ma tutto viene mantenuto morbido e senza eccessi, con vero garbo mendelssohniano. Il risultato non è comparabile allo splendore del Messiah del 2021, ma è ben più che pregevole.

I complessi della Slovenian Philharmonic Orchestra and Choir rispondono in modo eccellente alle richieste di Pinnock, dimostrando una compattezza formidabile. Le due compagini, per accuratezza del fraseggio, la splendida pulizia nell’intonazione, l’espressività mai artificiosa né facile ai sentimentalismi, forniscono un’ottima prova nonostante quelle di Mendelssohn siano pagine in cui si cammina sul filo del rasoio. Nel contesto particolare della Cattedrale di Pisa si fanno apprezzare soprattutto gli strumenti a fiato, la cui esecuzione risulta quasi per nulla inficiata dal cospicuo riverbero. Da menzionare anche il corale “Nun danket alle Gott” nella cui prima parte si è potuto ammirare il coro a cappella.

Molto bene anche i tre solisti, a cominciare dal tenore Mauro Peter. Dotato di un timbro caldo e con un registro centrale solido, Peter affronta con sicurezza sia i recitativi sia lo splendido duetto “Durm sing’ ich mit meinem Liede”, dimostrando peraltro una buona facilità verso l’acuto. Il soprano Valentina Farcas possiede uno strumento piacevolmente scuro, in grado di mantenere per tutta l’estensione una bella rotondità di suono, tutte caratteristiche ideali per la parte del secondo soprano (indicata così in partitura ma che potrebbe essere eseguita anche da un mezzosoprano); il timbro caratteristico la rende comunque ben identificabile anche nelle situazioni che chiamano in causa entrambe le soliste. Lauryna Bendžiūnaitė fa sfoggio di uno strumento generoso, ricco di armonici nel registro acuto e dotato di un timbro limpido e sottile, che risuona argenteo sopra la massa orchestrale; Bendžiūnaitė propone un fraseggio scrupoloso, dove si soppesano le tensioni armoniche all’interno di ogni frase e dispiace che nell’ora abbondante del Logbesang non ci sia un momento per il soprano completamente da solo.


 

 

 
 
 

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