Stelle e strisce
di Mario Tedeschi Turco
L'Orchestra Rai apre il Settembre dell'Accademia Filarmonica di Verona con Jurai Valčuha e un programma che ha per fulcro gli Stati Uniti, da Dvořák a Bernstein e Gershwin fino alla contemporanea Anna Clyne. La concertazione, ora scattante ora di vibrante poesia, nella Rapsody in blue ha trovato in Stefano Bollani un solista simpatico ma poco idiomatico.
VERONA, 10 settembre 2023 - È ricco di un significativo percorso artistico multiculturale il direttore Juraj Valčuha, slovacco di nascita, russo e francese di studi, internazionale di carriera, con un forte elemento statunitense nella pratica professionale anche recente (da poco più di un anno è tra l’altro Music Director dell’orchestra di Houston, dopo aver frequentato i podi di una decina tra le migliori compagini sinfoniche americane). Sarà forse anche per questo che la sua tournée con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI fa tappa al XXXII Festival del Settembre dell’Accademia Filarmonica veronese con un programma dal carattere variamente a stelle e strisce, con piatto forte costituito dalla Sinfonia ‘Dal Nuovo Mondo’ e con brani di Bernstein, Gershwin e Anna Clyne, compositrice inglese da anni residente oltre oceano, il cui linguaggio presenta forti elementi di meticciato particolarmente interessanti. Un percorso artistico, quello del concerto, che è dunque ben pensato nell’impianto di riferimento culturale, pur nell’opzione della Rapsodia in blu e della sinfonia di Dvořák, che certo non costituiscono esoteriche novità ma che, accostate a Bernstein e Clyne, possono acquisire una risonanza significante diversa, più profonda e attuale.
La serata ha principiato con una scattante esecuzione dell’Overture dal Candide di Bernstein, le percussioni e gli ottoni felicemente da subito sintonizzati sull’elemento brillante, con spicco particolare ai frammenti melodici che anticipano le arie "Oh happy me" e verso il finale la celebre "Glitter and be gay". L’orchestra si è dunque presentata in ottima forma, precisa, gli archi robusti in buon equilibrio con i fiati, in un insieme che è stato ad un tempo corposo e di luminosa leggerezza. Ancora meglio nel breve pezzo della Clyne, Red, dalla suite in tre movimenti Color Field edita nel 2020: si tratta di un brano di straordinaria incisività, alimentato da un’aggressiva energia, memore di certo sinfonismo alla John Adams nell’impeto delle linee ricorsive, ma rispetto a quello diversamente sintonizzato su timbri meno acuminati e su una trama motivica di espressionistica trasparenza, ordita su linee cadenzate che la stessa Clyne ha assimilato a delle «fiamme». Un gioiello che avremmo voluto risentire, meglio ancora se inserito all’interno dell’opera completa cui appartiene, e che conferma la statura notevolissima di questa compositrice oggi quarantatreenne.
Dopo questi due brevi pezzi, si è passati alla Rapsodia in blu di Gershwin, eseguita dal simpatico Stefano Bollani, che è strumentista di rilievo dal punto di vista digitale, ma che sommessamente ci par di poter dire che abbia poco assimilato lo stile novelty di Straight o Confrey al quale, sublimato dalla tecnica superiore sua propria e dell’amico Oscar Levant, Gershwin si ispirò largamente. Un’esecuzione poco idiomatica, dunque, dura, largamente insoddisfacente sia per swing che per sprezzatura bluesy, cui il nitore sonoro pur presente sia in orchestra che nel piano non ha apportato quella vitalità febbrile unita a malinconia struggente che è la cifra del capolavoro gershwiniano, che puoi appunto godere al meglio nelle incisioni storiche di Levant, di Bernstein (quella del 1959) o, nei nostri giorni, di Kirill Gerstein, che plasmano l’esecuzione con minime interiezioni, con rapidissime ornamentazioni che sanno giocare con lo schmaltz ebraico (quella inconfondibile cantabilità diretta al limite dello sdolcinato) e che infondono la varietà timbrica e ritmica che è strutturale dello stile compositivo/performativo in oggetto. I passaggi improvvisativi di Bollani sono invece sempre alquanto rigidi, titubanti, ad onta di rallentando disseminati qua e là, fors’anche per dissimulare una qualche difficoltà di ordine tecnico. Se si somma altresì uno scarso abbandono lirico in generale, l’esecuzione ci è parsa massiccia e ruvida, ancorché ben sincronizzata con l’orchestra di Valčuha, del solista ben più propenso alla fluidità del canto, al risuonare nostalgico del melos. Trionfo comunque per il pianista, e tre gigioneschi ma godibili bis d’improvvisazione jazz (su una medley con New York New York di John Kander e America di Bernstein; su un brano originale dello stesso Bollani; infine su I Got Rythm, ancora di Gershwin).
Nella seconda parte della serata, spazio alla Sinfonia ‘Dal Nuovo Mondo’. Facendo seguito a quanto già si era intuito dall’interpretazione gershwiniana e del brano della Clyne, Valčuha ha della sinfonia una visione decisamente virata sul versante elegiaco/patetico, così che nella sua lettura particolare risalto hanno assunto le melodie disseminate nel corso dei quattro movimenti, che hanno risuonato con uno sbalzo lirico davvero toccante, in modo particolare nel Largo, con l’episodio pastorale in do diesis maggiore che principia sugli staccato dell’oboe seguiti dai trilli e dalle riprese degli altri legni, che portano sino alla riesposizione del tema ciclico dell’intera sinfonia. E così ancora è apparsa di vibrante poesia la ripresa agli archi del tema sul quale nascerà la canzone Going Home, al termine del medesimo movimento, prima della chiusa modulante su tromboni e tuba che si spegne ai violini. Le prime parti dell’orchestra si sono disimpegnate benissimo, ma tutta la compagine ha fornito una prova ragguardevole, seguendo il gesto analitico di Valčuha con bella precisione e nitore di suono. Se qualcosa si può annotare di non particolarmente brillante è stata forse una certa qual uniformità nelle dinamiche la quale, unita a un’agogica sempre tendenzialmente meditativa, ha un po’ sacrificato quel tanto di monumentale che di certo Dvořák intendeva plasmare nelle ampie campiture dell’organismo sinfonico che, per la sintesi multiculturale d’impianto, André Lischké ha felicemente definito «Sinfonia del mondo intero». Pubblico entusiasta anche alla fine del concerto, ma nessun altro bis.