L’Ape musicale

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Damiano Michieletto prova il Trittico

 

IL TRITTICO

Osservazioni sulla partitura

La prima cosa che colpisce nella partitura del Trittico è la perfetta complementarietà fra i tre pannelli, che Puccini costruisce con cura minuziosa. Già il “colore”, l’atmosfera complessiva di ognuna delle tre opere, appare profondamente differente: sanguigno Il tabarro, diafana e madreperlacea Suor Angelica, mentre lo Schicchi è caleidoscopico, un’esplosione di colori continuamente cangiante. Naturalmente questo contrasto è ottenuto attraverso mezzi essenzialmente musicali, la scrittura orchestrale, il tessuto, il carattere dei temi. I temi principali del Tabarro, ad esempio – il tema dell’amore di Giorgetta e Luigi e il tema dei sospetti di Michele – sono in modo minore, drammatici, brevi e “scolpiti” nel ritmo. I temi dell’Angelica sono più arcaici, severi, spesso di carattere modale, in tono con l’argomento religioso. (Ma non sarà inutile sottolineare che nei primi due pannelli del Trittico Puccini, da grande drammaturgo, inserisce almeno un tema totalmente contrastante, che dà quindi risalto ancora maggiore all’atmosfera prevalente delle due opere: così il ricorrente “tema della Senna” nel Tabarro, liquido e impressionistico, e così il tema cromatico, violentemente espressivo – un tema dal carattere “profano”, evidentemente – dell’angoscia di Angelica quando chiede notizie del figlio.)

Nello Schicchi è invece più difficile trovare un carattere prevalente nel materiale tematico: l’opera infatti pullula letteralmente di temi, diversissimi tra loro ma tutti accomunati dalla straordinaria efficacia gestuale ed espressiva: il lamento dei parenti, reso attraverso i tradizionali “sospiri”, note discendenti legate tra loro due a due; i trionfali temi di Gianni Schicchi, entrambi “a mo’ di fanfara”; il lirico tema dell’amore di Lauretta e Rinuccio, il pomposo tema del testamento, il beffardo tema della “cappellina” che servirà a travestire Schicchi (e che ha ispirato tanta musica successiva, come quella di Nino Rota), il popolaresco “Addio Firenze”, nello stile di uno stornello toscano, il tema sospeso e politonale del dottore Spinelloccio… E’ semplicemente impossibile elencarli tutti, eppure ognuno di essi, nessuno escluso, resta impresso nella memoria dell’ascoltatore. Anche in quest’opera, e ancor più che nelle due precedenti, Puccini riesce a costruire degli istanti di grande efficacia drammatica attraverso l’uso del contrasto, facendo apparire improvvisamente un tema lirico ed espanso nel bel mezzo di una scena concitata in cui si rincorrono diversi materiali musicali. L’esempio più spettacolare di questa strategia, che probabilmente Puccini riprese dal Falstaff di Verdi (penso soprattutto al contrasto tra le brevi scene liriche dei due innamorati Nannetta e Fenton dietro al paravento e la frenetica ricerca di Falstaff nascosto in casa di Ford), è rappresentato dall’aria di Lauretta “O mio babbino caro”, che emerge improvvisa, lirica e suadente, nel momento in cui lo scontro verbale tra Gianni Schicchi, Zita e il resto dei parenti sta raggiungendo un punto culminante e parossistico. La straordinaria efficacia drammatica di “O mio babbino” si può cogliere solo se l’aria si staglia su questo sfondo indiavolato (se viene eseguita separatamente, come succede spesso nei recital solistici, l’aria suona piuttosto insipida): è proprio il contrasto a renderla irresistibile, e a far sì che Schicchi decida, “come chi è costretto ad accondiscendere” (così il libretto), di collaborare con i Donati. Un simile uso del contrasto, ancora più sottile, si trova nella scena della dettatura del testamento: man mano che detta, lasciando i beni più preziosi a sé stesso, Schicchi si assicura che i parenti non possano protestare inserendo qua e là frammenti dell’”Addio Firenze”, ossia del canto con il quale aveva in precedenza messo in guardia i parenti stessi sulle possibili conseguenze della truffa. La sovrapposizione di significati, la maestria con cui il piano scenico e quello musicale si intrecciano e si rafforzano a vicenda, è veramente magnifica. Senza dubbio una tale varietà, il ritmo drammatico rapidissimo e mutevole, l’incredibile fantasia delle combinazioni orchestrali sono la ragione per cui lo Schicchi è da sempre, fin dalla prima newyorchese del 1918, apparso a molti commentatori superiore rispetto alle due opere sorelle.

I tre brani, comunque, sono strettamente legati tra loro da numerosi elementi stilistici, e non è azzardato affermare che con il Trittico l’arte di Puccini entri davvero in una nuova fase, più sperimentale ma anche più moderna. Il compositore lucchese era, oggi lo sappiamo bene, un musicista del proprio tempo, perfettamente al corrente delle novità artistiche e musicali; conosceva e apprezzava, per fare solo tre esempi, tanto Richard Strauss quanto Debussy e Stravinskij, e aveva un bagaglio tecnico che gli permetteva di assimilare e ripensare le caratteristiche della musica dei suoi grandi contemporanei adattandole al proprio stile e alle esigenze della propria drammaturgia. Basta pensare all’uso insistito, quasi onnipresente nel Trittico, della tecnica dell’ostinato ritmico: Puccini spesso basa intere scene sulla ripetizione ossessiva di un singolo motivo. Nel Tabarro gli esempi più evidenti sono proprio i motivi già citati dell’amore contrastato di Giorgetta e Luigi (nel duetto centrale) e dei sospetti di Michele (nella scena conclusiva); in Suor Angelica i primi esempi che vengono in mente sono le campane all’inizio dell’opera, o le tre note con cui si apre la grande aria “Senza mamma, o bimbo, tu sei morto!”. Gran parte dello Schicchi poi è proprio basata sulla ripetizione di singoli motivi, a partire dalla scena iniziale – i lamenti dei parenti di Buoso – e via via fino alla marcia funebre (in ritmo ternario, ossia “deformata” ironicamente) che risuona insistente nel momento in cui Schicchi incomincia a costruire la messinscena (“Nessuno sa che Buoso ha reso il fiato?”), o alla grande scena della dettatura del testamento.

Puccini inoltre costruisce spesso delle grandi arcate drammatiche scandite dal ritorno periodico di un singolo tema, che quindi unifica momenti contrastanti e molto diversi tra loro: la sensazione che abbiamo è che un’intera, ampia scena venga realizzata, dal punto di vista musicale, come un grande rondò. Un esperimento che il compositore aveva già tentato in precedenza – nel secondo atto di Tosca, ad esempio – ma che qui si fa molto più evidente e contribuisce alla particolare atmosfera concentrata e “ossessiva” delle tre opere. (Un’atmosfera che naturalmente assume caratteri e sfumature diversissime: è ossessione amorosa e al tempo stesso “claustrofobica” di Giorgetta nel Tabarro, ossessione del passato e della maternità negata nell’Angelica, ossessione dell’eredità nello Schicchi.) Ricorrente nel Tabarro è il già citato tema del fiume con cui si apre l’opera, calmo ed “impressionistico”, che si appoggia sulle regolari crome ondeggianti nei bassi. Non a caso Puccini aveva scritto al librettista, Giuseppe Adami, che ciò che lo interessava era “che la signora Senna mi diventi la vera protagonista del dramma”, per creare il massimo contrasto possibile con la “sete di terraferma” e il “rimpianto delle luci di Parigi” di Giorgetta.

Il gioco dei ritorni e dei rimandi tematici nello Schicchi è più complesso e intreccia tra loro molti piani paralleli, sia musicali che scenici. Come si è visto infatti il numero di temi e motivi conduttori in quest’opera è infinitamente più ampio rispetto ai due precedenti atti unici, cosa che permette a Puccini di differenziare le strategie drammatiche e formali. Per mostrare la raffinatezza dello stile pucciniano è necessario a questo punto scendere sia pur brevemente nel dettaglio: mi limiterò a osservare come, nella scena iniziale, il tema del lamento dei parenti (costituito da successioni ritmicamente regolari e concentrato nei registri medi e gravi) ceda progressivamente spazio al tema delle voci udite a Signa, una sorta di segnale sonoro scattante e irregolare che si presenta invariabilmente nei legni e in registro acuto. I due temi continuano poi ad alternarsi, a sovrapporsi e a scandire il ritmo drammatico: il tema del lamento si fa frenetico durante la ricerca affannosa del testamento, e raggelato – negli archi gravi pizzicati – quando agli esterrefatti parenti si è ormai rivelata la verità; il tema di Signa risuona, beffardo e deformato, durante la lettura del testamento, ossia nel momento in cui i timori trovano conferma, e si sovrappone, come un’eco lontana, al tema del lamento negli archi pizzicati al termine della scena.

Da quanto si è detto finora il lettore avrà senz’altro colto una delle caratteristiche compositive più evidenti del Trittico: il ripensamento, tipico di tutta la produzione pucciniana, della tecnica wagneriana del Leitmotiv. In misura diversa, ognuna delle tre opere è percorsa da un buon numero di motivi musicali, brevi temi caratteristici (i “motivi conduttori”, appunto) che identificano un personaggio, un oggetto o uno stato d’animo: il tema della Senna, il tema dell’amore di Giorgetta e Luigi, il tema del figlio morto di Angelica, il tema di Schicchi, il tema del medico, il tema del testamento, e così via. In genere, quando il personaggio o l’oggetto è in scena o viene anche semplicemente nominato, riascoltiamo in orchestra il “suo” tema, che assume quindi una funzione mnemonica, fornisce allo spettatore una sorta di piccola “guida all’ascolto”: così, ad esempio, il tema del duetto d’amore di Giorgetta e Luigi riapparirà nell’aria di Michele proprio nel momento in cui egli sospetta che la moglie lo tradisca con Luigi. Quando Rinuccio nomina Lauretta ai parenti l’orchestra ci fa ascoltare un frammento del tema d’amore, e quando lo stesso Rinuccio consiglia di rivolgersi a Gianni Schicchi ne pronuncia il nome cantando proprio il suo tema, una saltellante triade perfetta dal carattere di fanfara. E poco più tardi, subito prima di cantare la sua aria “Firenze è come un albero fiorito”, Rinuccio ci offrirà anche un ritratto fisico e morale dello stesso Schicchi, facendoci sentire il suo secondo Leitmotiv (un’altra fanfara, che rappresenta le qualità di “motteggiatore beffeggiatore”): Puccini così ci presenta i due personaggi, padre e figlia, prima ancora che entrino in scena.

Ma come si è visto nella breve analisi della scena iniziale dello Schicchi, poco più sopra, Puccini non si limita a utilizzare la tecnica wagneriana nel modo più tradizionale: egli riesce a renderla più personale, costruendo una sorta di rapporto di deformazione progressiva tra i diversi Leitmotive: una modifica nel profilo o nel ritmo significa che il senso (drammatico e scenico) di un particolare motivo si è trasformato. Il “motivo di Signa” all’inizio si presenta come un semplice segnale, ma durante la lettura del testamento esso viene deformato, reso più cromatico e dissonante, e l’ascoltatore ha quindi l’impressione che le semplici “voci” di cui si parlava in precedenza stiano diventando sempre più dolorosamente vere: Buoso Donati ha effettivamente lasciato ai frati tutte le sue sostanze! E il motivo del lamento, che inizialmente sembra descrivere l’autentico dolore della famiglia – visto che come si è detto è basato su un topos, un cliché musicale del lamento – si trasforma per sottolineare dapprima l’affannosa ricerca del testamento da parte di tutti i parenti (accelerato, quasi frenetico: al finto cordoglio succede la vera ansia) e quindi, pianissimo e pizzicato nei bassi, il loro stupore impotente. Uno stesso motivo, quindi, se viene articolato in tre modi diversi riveste tre funzioni drammatiche differenti.

Manca purtroppo lo spazio per occuparsi, anche solo brevemente, di altri aspetti di queste partiture come ad esempio la formidabile sottigliezza della scrittura orchestrale, un campo nel quale Puccini ha pochi uguali (e non solo in Italia). Gli stessi libretti meriterebbero un’analisi approfondita (lo Schicchi viene spesso paragonato, a ragione, alle migliori prove comiche di Boito, di Sterbini o di Felice Romani). Dovremo qui accontentarci di aver segnalato al lettore alcune strategie drammaturgiche del compositore lucchese, che sono alla base della straordinaria efficacia del suo teatro musicale.

Giovanni Bietti


 

 

 
 
 

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