L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Perduta in landa desolata

di Luca Fialdini

Esito infelice per Manon Lescaut, il secondo titolo del cartellone 2024 del Festival Puccini di Torre del Lago

Torre del Lago, 13 luglio 2024 - Proseguendo ordinatamente la cronologia delle opere di Giacomo Puccini, al Festival di Torre del Lago approda Manon Lescaut, il primo successo di livello internazionale del giovane compositore. Prima ancora che l’orchestra entri in buca si percepisce nettamente che la serata non si svolgerà sotto i migliori auspici, infatti sul palco troviamo il solito ledwall con la piattaforma rotante (non è che le opere di questa stagione saranno tutte così o quasi?) e una copia del Ratto di Proserpina del Bernini su un piedistallo: almeno stavolta non si potrà dire che la scena sia completamente vuota.

Regia, costumi, scene e luci sono a firma di Massimo Pizzi Gasparon e in effetti tutto è nel più puro stile dell’altro Pizzi, Pier Luigi, con i video che almeno in questo caso si muovono, seppur con dei risvolti particolarmente kitsch (il fronte temporalesco che accompagna Des Grieux è così didascalico da diventare macchiettistico), la regia è sostituita dalla ormai proverbiale sfilata di costumi e tra il terzo e il quarto atto bisogna aspettare svariati minuti che i macchinisti smontino a vista le scene. Ci sono però due cuspidi cui chi scrive non aveva mai assistito: la prima è lo spostamento del celebre Intermezzo all’intervallo tra terzo e quart’atto invece che tra secondo e terzo, collocazione innaturale e illogica perché è scritto per il colore del terzo atto e ne anticipa alcuni temi e motivi, non ha la minima attinenza con il quarto, di segno completamente diverso. Si preferisce tacere sulla scelta di inserire due pur validi ballerini (Debora Di Giovanni e Sebastian Andersen coreografati da Gheorghe Iancu): non ha alcun rapporto con la drammaturgia e se esiste solo come riempitivo allora non ha ragione di esistere. La seconda vetta della serata è quel capolavoro rosa shocking del secondo atto, una sorta di locura direttamente dalla terza stagione di Boris: crinoline rosa che incorniciano un letto doratissimo – quando «alcova dorata» è preso alla lettera – ancora sotto lo sguardo di Proserpina. Un boudoir dell’eccesso che cristallizza in un unico momento tutte le esagerazioni, gli horror vacui e i nonsense di questo allestimento. Non è mai chiaro, ad esempio, se l’azione si svolga nel mondo reale oppure no, se nell’uso di certi costumi ci sia un intento ironico oppure no, ma soprattutto non si capisce mai dove si voglia condurre lo spettatore, che in questo delirio forse onirico non è in grado di individuare una vera direzione.

Il senso di déjà vu è rafforzato anche dall’Orchestra del Festival Puccini che, esattamente come la sera prima, si è dimostrata piuttosto fredda e con equilibri precari (gli ottoni a tratti scomparivano all’udito) nel primo atto, ma sin dall’inizio del secondo hanno saputo ricompattarsi: il cambiamento non è stato da poco e ha portato con sé bilanciamenti adeguati, maggior tensione, alcuni colori niente affatto male e anche una bella esecuzione del sopracitato Intermezzo, dove hanno spiccato l’amalgama generale e i passi a solo ben eseguiti dagli archi. Nel primo atto è tornato lo scollamento che, in punto analogo, si era presentato nell’Edgar della serata inaugurale, investendo però questa volta il Coro; meglio rispetto ad appena ventiquattr’ore prima, ma anche nel titolo odierno la precisione non è sempre rispettata e spesso si presentano delle vistose oscillazioni di tempo.

Beatrice Venezi si trova a fronteggiare una partitura di rilevante complessità. Intensa e con alcune riuscite intuizioni sui colori orchestrali (eccettuando lo scollamento di cui sopra), Venezi ha garantito una tenuta drammatica sostenuta e anche una certa compattezza dell’orchestra, che trova riuscite particolarmente felici nel rovente concertato del secondo atto, nell’Intermezzo, nel terzo atto e in un quarto atto che rappresenta senza dubbio il vertice della serata.

Il cast dei solisti è meglio assemblato di quello del dittico Willis/Edgar, a cominciare dai validi comprimari Eugenio Maria Degiacomi (Oste/Comandante di Marina), Francesco Lombardi (Sergente degli Arcieri), ed Elena Belfiore (Musico). Molto corretto e dotato di un bel timbro l’Edmondo interpretato da Matteo Roma, mentre Saverio Pugliese (Maestro di ballo/Lampionaio) caratterizza egregiamente i due ruoli affidatigli. Andrea Concetti dà vita a un Geronte lontano dalla tradizione del ruolo di vecchio bavoso, piuttosto lo tratteggia in modo cinico e altero, un’interpretazione efficace quanto la sua prova vocale che, peraltro, è stata pure eseguita con grande cura. Ottimo Nicola Farnesi come Lescaut: se da una parte è effettivamente più giovane di Manon, dall’altra il timbro, la naturalezza dell’interpretazione, lo scrupolo del fraseggio e la verve rendono la sua presenza una nota di pregio tale da poter soprassedere sull’anagrafica. Data prova ben più che positiva speriamo di poterlo ascoltare nuovamente, anche in ruoli maggiori.

Le dolenti note suonano sui due protagonisti. L’inizialmente previsto Francesco Pio Galasso per l’impervia parte di Des Grieux è stato sostituito da Andeka Gorrotxategi, tenore dotato di un timbro straordinariamente scuro (quello del baritono Farnesi è persino più chiaro), omogeneo su tutto il registro ma che sul versante tecnico non apre rosee prospettive: l’emissione risulta piuttosto sforzata e quindi sovente davvero inelegante nonché faticosa, ci sono persino problemi di tenuta che lo costringono a respirare tra le sillabe. Nei momenti in cui qualcosa dovrebbe emergere anche solo per legge delle probabilità, come il secondo o il terzo atto, tutto si arresta di fronte a una figura davvero poco carismatica, con poche idee musicali e soprattutto con una dizione terrificante.

Non di molto migliore Alessandra Di Giorgio nel ruolo del titolo. Se da un lato può contare su uno strumento senza dubbio generoso, dall’altro manca di rotondità, di sostanza nei gravi e nei centri; anche nel suo caso ci sono alcune incongruenze sul fraseggio e sulla dizione (il grande duetto del secondo atto è stato a tratti incomprensibile), ma va sottolineato che – al contrario del collega – Di Giorgio possieda abbastanza intelligenza musicale da saper maneggiare con successo le situazioni in cui il suo personaggio deve sapersi imporre al pubblico, in particolare nel terzo e quarto atto (quest’ultimo ben eseguito), in cui sfodera dei bei piani, delle dinamiche di buon effetto, caratterizzando tutto con una riuscita musicalità.

Alla luce di due serate tanto ravvicinate, si può dire che questo Festival del centenario non sia iniziato nel migliore dei modi, sebbene vada riconosciuto alla programmazione di aver avuto il coraggio di portare tre rarità a Torre del Lago: anche Manon Lescaut qui è considerabile merce rara, dato che in quasi un ventennio sul lago di Massaciuccoli ha conosciuto appena tre allestimenti. Con il rispetto dovuto ai teatri di provincia, dato che riescono ad assolvere alle loro funzioni seppur con fondi limitati e che spesso ci regalano sorprese liete come inaspettate, nel momento in cui si corrono dei rischi proponendo titoli poco frequenti nella propria area d’influenza, bisognerebbe puntare almeno sulla qualità musicale; un buon cast e un’orchestra e coro che abbiano lavorato a sufficienza fanno davvero la differenza ed è un peccato che proprio su questo ci si sia incagliati, almeno in queste prime tre proposte.


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