L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Omaggi erranti

di Roberta Pedrotti

La quarantanovesima edizione del Cantiere fondato da Hans Werner Henze a Montepulciano spazia con successo fra il grande repertorio concertistico, il teatro musicale, proposte cameristiche e sperimentali in vari spazi della città e della Val di Chiana.

MONTEPULCIANO, 12-13-14 luglio 2024 - Nel 2025 saranno cinquant'anni di Cantiere, a Montepulciano. Cinquant'anni da quando Hans Werner Henze, trasferitosi in Italia e innamoratosi della Val di Chiana, decide di impegnarsi in prima persona per la scuola di musica locale e per fare del borgo una comunità laboratorio di arti, musica e teatro. Un cantiere nel vero senso della parola, insomma, dove tutti possono essere importanti, al quale tutti possono contribuire, che tutti vivono e per il quale Henze, con entusiasmo, non solo compone, ma all'occorrenza affetta anche il salame alla mensa. Ancor oggi tutti ne parlano, difficile che passi una giornata senza che qualcuno non ricordi l'intellettuale e musicista scomparso dodici anni fa, non dispieghi qualche aneddoto, non faccia trasparire una punta di nostalgia. È inevitabile che il Cantiere viva di questa memoria e che con questa debba in qualche modo fare pure i conti. Ma nulla è immutabile e sono proprio figure come quella di Henze a spronare a guardare avanti, a tramandare principi e rinnovare le forme. Dopo Roland Böer (che era già stato direttore musicale con il fondatore in vita), abbiamo visto alla direzione artistica il compositore Mauro Montalbetti, cui è succeduta da quest'anno la pianista Mariangela Vacatello (in tandem con il neodirettore musicale Michele Gamba). Abbiamo ascoltato molta musica del Novecento e del XXI secolo, diverse nuove commissioni, repertorio classico e più lontano nel tempo, titoli familiari e rarità. Non viene mai a mancare lo spirito di apertura e libertà che contraddistingue il Cantiere, così come il senso di comunità e di collaborazione. Al di là del risultato del singolo progetto, della personalità di chi si avvicenda ai vertici, resta la custodia di una preziosa scintilla di utopia, quella che ti fa sentire in famiglia, di anno in anno, con tutti coloro che lavorano a Montepulciano, quella che permea la direzione sempre di uno spirito di servizio lontano dal narcisismo o dall'interesse personale. C'è una bella differenza fra chi usa una manifestazione per scambi convenienti o vetrine dell'ego e chi, invece, si mette a disposizione nelle proprie attività e competenze per il bene di un progetto comune. Per fortuna, a Montepulciano, abbiamo sempre visto perseguire quest'ultima linea, così nettamente tracciata da Henze. E se i tempi cambiano, se cambiano le persone, qualcosa con gli anni si sbiadisce o si trasforma, che i principi restino sempre così: linfa vitale.

Come ogni anno, il Cantiere non può che aprirsi in piazza, cuore del borgo, luogo d'incontro fra il sentire civile del Palazzo Comunale e quello sacro del Duomo, a due passi dalla Rocca con il suo parco, luogo di riposo, giochi e convivi. Sul podio di un'Orchestra della Toscana in ottima forma sale Alexander Lonquich, del quale si ammira sempre l'eccellenza cameristica, pianista di rara sensibilità per il far musica insieme in piccoli ensemble. E dunque, anche con la bacchetta in mano un campione della condivisione e del reciproco ascolto non può che essere la persona perfetta per inaugurare il quarantanovesimo Cantiere. Per di più, il programma gli è particolarmente congeniale, con la Sinfonia n. 6 Kleine di Schubert e il Concerto per violino in mi minore op. 64 di Mendelssohn. Forme, equilibri e trasparenze di olimpica purezza, ben memori del classicismo viennese, ma animati dal vento nuovo e dal pathos di fermenti romantici. In una rassegna che da sempre ha guardato al futuro, poi, il programma di limpida tradizione ci regala la bella scoperta della violinista Angela Tempestini, ventun anni compiuti da meno di un mese, innata musicalità, tecnica, intonazione, fraseggio sensibile ed elegante. Dopo il concerto di Mendelssohn come bis propone – all'aperto, ricordiamolo – un movimento da una sonata di Ysaÿe con ammirevole controllo, sì da mostrare da un lato il nitore del virtuosismo, dall'altro il giusto respiro di un'agogica adeguata.

Così si aprono ufficialmente le danze, ma il programma si dirama nel tempo e nello spazio, anche fuori dagli appuntamenti clou e dalle mura cittadine. Un aperitivo al concerto inaugurale arriva con le bande B. Somma e Poliziana dirette da Franco Radicchia che omaggiano Bruckner, Puccini e Morricone (bene, per questi ultimi, il soprano Sarah Piccioni nella parola cantata dell'uno come nel vocalizzare dell'altro); un bel modo di riavvicinarci a un far musica popolare e quotidiano, diverso da quello delle grandi istituzioni, ma che non merita di esser guardato con sufficienza, quando, anzi, risulta ancor più toccante per la forza pervasiva ed emotiva della diffusione di grandi capolavori (il medley Moments from Puccini è gustosissimo, fra Musetta, il Sagrestano e Pu Tin Pao). Sempre in città, istallazioni a cura di Opificio sonoro (lavori di Nicola cappeleltti ed Elisabetta Costantino) di suoni urbani e naturali, di frequenze campionate e distillate, ci pongono, nel chiostro comunale, interrogativi sul senso dell'arte contemporanea, del silenzio, dell'ambiente acustico in cui siamo immersi. Fuori le mure, si passeggia per i boschi di Torrita di Siena in un concerto di percussioni vive, facendo musica della vegetazione. Oppure, non si ignora l'acustica del tempio di San Biagio, capolavoro rinascimentale di Antonio da Sangallo d'ispirazione bramantesca. Non paia il paragone irriverente ai credenti, ma anche per chi non è devoto ascoltare musica sacra nel contesto liturgico ha un notevole valore. Come l'opera si apprezza al meglio nella sua piena veste teatrale o la musica da camera in ambienti raccolti, così ciò che è nato per il rito respira naturalmente, e meglio si apprezza, in questo contesto. La messa domenicale permette ai fedeli di accostarsi a musica d'altissima qualità per essa concepita; il pubblico del Cantiere con la “liturgia concertata” in cartellone può apprezzare i cori (corale Le grazie e Poliziana dirette da Judy Diodato) nella loro originaria funzione e nella bellezza architettonica del luogo. E se abbiamo fatto cenno alla musica da camera, non possiamo non ricordare il bel concerto per flauto solo di Roberto Pasquini, che intorno alle sue trascrizioni dei Capricci di Paganini (pubblicate e incise per Da Vinci) attraversa la storia della musica da Bach al Novecento di Piazzolla, Ibert, Dohnányi, Berio e Takemitsu. Un viaggio in cui colpisce soprattutto la metamorfosi tecnica di fronte alle esigenze stilistiche e di emissione di ogni autore, dal rigore quasi astratto del Kantor di Lipsia a vibrazioni canore per il violinista genovese, fino a tutta la gamma timbrica, vocale e percussiva delle sperimentazioni più recenti. Non da meno, vale il luogo: il Museo Civico di Montepulciano merita di essere una tappa fissa a ogni visita e non solo per il suo Caravaggio (o, per i melomani, per il celeberrimo ritratto di Napoleone Moriani in costume di Edgardo); la sala dedicata ad Andrea Della Robbia è lo scrigno perfetto, intimo e accogliente, per un concerto come questo.

Pezzo forte di questo primo fine settimana di Cantiere è anche la prima delle produzioni di teatro musicale in cartellone, El retablo de maese Pedro di Manuel de Falla, preceduto dal debutto dell'ouverture per baritono e orchestra Imàgenes Errantes di Stefano Pierini. Due declinazioni del tema donchisciottesco complementari, oltre che ben aderenti allo spirito utopistico, errante, ribelle e fedele a sé stesso della rassegna fondata da Henze. Dapprima vediamo apparire il baritono Paolo Leonardi, classe 1997 e molto attento alla musica dei nostri giorni, per intonare tre sonetti di Cervantes dedicati a Don Quijote, Sancho Panza e al cavallo Rocinante in ideale dialogo o con le voci di altre figure letterarie, reali o immaginarie, fra cui la cavalla Babieca del Cid Campeador. I testi sono scanditi con un'incisività non banale, che esige attenzione anche per il rapporto con il tessuto orchestrale, cangiante e coerente nei suoi rapporti timbrici e tematici, nei momenti di rarefazione o di più perentoria presenza, di delicatezza lirica, declamazione o ruvida densità. Un linguaggio che si distingue nettamente da quello di Falla, ma pure non genera uno iato nella continuità della serata, che ci conduce quasi naturalmente dal gioco di specchi poetico sui personaggi a Falla e alla vicenda emblematica di Don Quijote di fronte alla rappresentazione popolare dell'epica cavalleresca, sdegnato e critico prima, totalmente e follemente coinvolto poi. Il merito va anche al direttore musicale Michele Gamba, per di più impegnato in un tour de force fra gli impegni poliziani e quelli milanesi (Turandot alla Scala). Eppure, riesce a mostrare concentrazione e piena adesione stilistica, immergendosi in un mondo musicale che gli più che mai congeniale, così come pare esserlo la natura del Cantiere, il suo senso di collaborazione, esplorazione, ricerca. Sotto la sua guida (ma, data la spola serrata fra Lombardia e Toscana un plauso andrà anche riservato all'assistente Mimma Campanale e al maestro sostituto Niccolò Cantara), la Camerata Strumentale di Prato assolve assai bene al suo compito, così come convince tutta la compagnia di canto, con il Quijote di Giacomo Pieracci, il Maese Pedro di Giovanni Petrini e soprattutto il Trujamàn di Markos Bincocci, voce bianca di notevole prontezza musicale e ancor più spiccata teatralità. Un vero talento, che non solo Gamba conduce con sicurezza nel suo ruolo chiave, ma che gioca benissimo le sue carte attoriali nel disegno registico del collettivo Anagoor. Il loro è in effetti uno spettacolo basato su un'efficacissima cura della recitazione, su una fisicità coinvolgente e non strabordante, nel felice equilibrio fra le molteplici suggestioni fornite dalla figura di Don Quijote e dalle drammaturgie metapoetica e metateatrale. Di fatto, l'utopia, il rispecchiarsi di sogni e visioni, immagini di sé, del reale e dell'ideale, il teatro metafora del mondo sono anche un ritratto di Montepulciano: Sancho Panza, presenza muta, ha l'aspetto del Pulcinella che domina l'amata torre omonima del centro; il teatro d'ombre di Maese Pedro è animato da ragazzi delle scuole locali; alla fine, il mondo di carta su cui scorrevano incisioni di Gustave Doré o si muovevano le silhouette di dame, re, cavalieri e mori può farsi a brandelli infrangendo il confine con il reale. Copiosi applausi suggellano l'unione delle dimensioni della vita e del sogno.

Non si vorrebbe mai partire da Montepulciano, dai suoi paesaggi limpidi e luminosi e dai cunicoli fitti di cantine, oliere, caciaie e incontri segreti. Il fine settimana, però, giunge al tramonto. Le ombre del crepuscolo abbracciano il Chiostro di Sant'Agnese, nella quiete del pubblico seduto un buon numero di simpatici gechi si affaccia sulle mura per assistere allo spettacolo (e magari liberarci di qualche ospite alata meno gradita). Io, Anna Dostoevskaja è un omaggio alla seconda moglie dell'autore di Delitto e castigo. Non la “grande donna dietro al grande uomo”, come vuole il luogo comune: i grandi non hanno bisogno di qualcuno da celare dietro di sé, ma spesso hanno al loro fianco persone non meno grandi, nei loro diversi talenti e nelle loro qualità. Senza Anna difficilmente avremmo avuto Il giocatore e tutti gli ultimi capolavori, fino ai Fratelli Karamazov. Ingaggiata come stenografa per adempiere ai tempi di consegna di un contratto capestro, la giovane diventa presto confidente, ispiratrice, collaboratrice strettissima e irrinunciabile. Addirittura editrice, con spirito imprenditoriale all'avanguardia, prima ancora che preziosa memorialista. E proprio dalle sue memorie è tratto il testo di Maddalena Maggi, che lo recita alternandolo a preludi e studi di Rachmaninov affidati alle dita di Mariangela Vacatello. L'intreccio è particolarmente ben riuscito, le parole e le note si muovo in equilibrio, quasi raccogliendo le une le suggestioni delle altre e viceversa. Non solo Maggi dà voce ad Anna Grigor'evna Snitkina Dostoevskaja con sincera e sentita partecipazione, ma Vacatello declina le pagine di Rachmaninov con un'intensità priva di retorica, sia nel trasporto affettuoso e nelle gioie dell'amore, sia nella malinconia e nel lutto, segnato dal Preludio op.3 n. 2 in do diesis minore, quasi una marcia funebre toccante e solenne per Fëdor e per Anna. Allora le luci si abbassano e sembra che si accenda, più splendente che mai, il cielo stellato. Scoppiano gli applausi, i gechi si fanno invisibili nelle ombre. È finita un'altra giornata di Cantiere, non resta il brindisi informale, tutti insieme al chiosco della Fortezza, per parlare, festeggiare, i saluti di chi parte, il buon lavoro a chi resta.


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