L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nemo propheta in patria

di Luca Fialdini

La serata inaugurale dell’edizione del centenario al Festival Puccini offre una proposta interessante, un dittico Le Willis/Edgar, ma la realizzazione desta alcune perplessità

Per Torre del Lago il 2024 porta due ricorrenze di rilievo: il centesimo anniversario della morte di Giacomo Puccini ma anche la 70^ edizione del Festival sul lago di Massaciuccoli intitolato al compositore, per cui è lecito avere delle aspettative tanto sulla proposta quanto sulla realizzazione stessa. In termini di proposta, la serata inaugurale ha attirato davvero molto l’attenzione con l’inedito dittico Le Willis/Edgar (di fatto poi ribaltato nell’esecuzione per esigenze puramente tecniche) che unisce quelli che sono sia i primi due lavori operistici pucciniani sia i due titoli meno eseguiti di tutto il suo catalogo.

A onor del vero, Le Villi qualche sporadica apparizione la compiono, persino nella prima stesura, che appunto reca il titolo Le Willis: l’ultima su questo palco risale 2019, mentre al Giglio di Lucca solo due anni fa. Tutt’altra questione è quella dell’Edgar, rarità assoluta se lo si vuol vedere su un palcoscenico e che Torre del Lago manca dal 2008. È corretto – anzi, giusto – che un festival interamente consacrato a un compositore punti anche sulle rarità, specialmente se si può contare sul pretesto offerto da una ricorrenza come quella tonda dei cent’anni; l’unico interrogativo che ci si può porre è se sia una scelta funzionale quella di proporre i due titoli insieme. Con il senno di poi ci sentiamo di rispondere di no.

Edgar (con l’accento sulla a) è proposto nella prima versione in quattro atti, ma curiosamente è stata tagliata così tanto e così estensivamente che ci si domanda per quale motivo scomodarsi a riesumare la versione scaligera del 1889 quando esiste la terza versione, quella 1892 per il Comunale di Ferrara rivista nel 1905, in cui i tagli esistono ma per lo meno sono di Puccini e prevedono pure un aggiustamento della trama per venire incontro alle conseguenze della soppressione di così tante regioni della partitura. Da un punto di vista strettamente musicale i tagli operati in questa sede non sono nemmeno malvagi e la partitura sta in piedi senza troppi traumi, ma la drammaturgia ne esce distrutta: già non si tratta dell’opera più riuscita – né di Puccini, né tout court – ma agire in questo modo significa uccidere anche quelle pur poche cose che il titolo ha da offrire. Se la scure censoria è stata animata dalla pruderie di non eccedere con il minutaggio per la compresenza delle Willis, bastava non creare nessun dittico; Edgar può stare benissimo da solo e le Willis, come accaduto due anni fa al Satyricon di Maderna, in virtù della durata contenuta potevano essere ospitate nell’Auditorium Caruso.

L’allestimento – come al solito uno e trino – di Pier Luigi Pizzi non migliora affatto la situazione: se l’opera è debole sarebbe il caso che la regia provasse ad aiutare la causa, ma non si può pretendere molto dalla sfilata di costumi, per buona che possa essere la fattura di questi, illuminati dalle solite luci immobili e glaciali di Massimo Pizzi Gasparon. L’impianto scenico propone l’enorme ledwall già ammirato (e con altri esiti) lo scorso anno nel dittico Il Tabarro/Il castello di Barbablù davanti al quale è posta una piattaforma girevole senza alcun elemento scenografico a colmare in qualche modo la vastità desolata del palcoscenico, che essendo stato costruito per le opere en plein air è pure di dimensioni importanti. Gli unici elementi che rimandavano a un fondale scenografico erano le immagini del ledwall, tutte di una fissità sconfortante a eccezione di un incendio in bassa risoluzione alla fine del primo atto. Sulla componente visiva non c’è altro da dire, se non che sarebbe stato bello vedere una regia; anche pessima, ma che almeno fosse una regia. Identiche considerazioni su Le Willis, ma se non altro quella non è una vera opera, piuttosto una sorta di cantata scenica (ancor più delle Villi) e la mancanza di una qualsiasi idea è meno evidente.

La direzione di Massimo Zanetti non è malvagia, ma manca di tensione, di sangue. Va detto che l’Edgar ridotto a patchwork è stato causa di molti problemi nel corso delle prove e se bisogna pensare a portare a casa lo spettacolo non c’è molto tempo per dedicarsi a nient’altro. Da parte della buca, il primo atto è stato piuttosto freddo e con qualche scollamento (pur circoscritto) con il palco, tuttavia la situazione è migliorata a partire dal secondo e l’Orchestra del Festival Puccini ha trovato un suo equilibrio e una sua coesione, abbastanza da garantire una buona tenuta fino all’una del mattino. Stranamente il Coro e il Coro di voci bianche, rispettivamente preparati da Roberto Ardigò e Viviana Apicella, hanno sortito un effetto tutt’altro che positivo, nessun carattere, i singoli componenti slegati gli uni dagli altri, entrate molto incerte; sottolineiamo la stranezza dell’evento perché solitamente le loro prestazioni sono assai migliori di quanto udito stasera: che sia dovuto a un numero insufficiente di prove o che sia stata la proverbiale “serata no” non possiamo saperlo, ci si augura che si tratti solo di un banale incidente di percorso.

Bene le coreografie di Gheorghe Iancu, non necessarie in Edgar ma che detengono di diritto il loro spazio nelle Willis, in cui si è potuta ammirare come solista la ballerina Debora Di Giovanni.

Poco entusiasmante anche la prova dei solisti, inficiata da alcune scelte di cast poco felici. Luca Dall’Amico è un buon Gualtiero, forse dal timbro un po’ troppo giovane ma comunque ben centrato; Vittorio Prato (Frank) esibisce una linea vocale sicura e nitida, con un fraseggio molto ben curato; pur risultando – stranamente – non molto incisivo, fornisce quella che è stata la miglior prova vocale della serata.

Ketevan Kemoklidze come Tigrana è molto bene in parte sul versante attoriale con una presenza sanguigna e sensuale, mentre su quello canoro può contare su uno strumento piuttosto solido (anche se i gravi non sempre sono ben appoggiati), anche se la dizione non è impeccabile.

Vasyl Solodkyy dimostra alcune criticità nel ruolo del titolo, da una certa incertezza nel registro acuto che porta a un piccolo sciovolone alla fine del primo atto a una tenuta non sempre solidissima, anche se qualche intenzione sia drammaturgica sia coloristica denota un certo mestiere.

Unica solista presente in entrambi i cast, Lidia Fridman incassa una buona prova. Restano perplessità – già espresse altrove – sulla proprietà dell’associare la sua voce al repertorio del sor Giacomo, ma in questi due titoli scritti da un Puccini non Puccini anche il suo timbro caratteristico può trovare una collocazione senza troppi turbamenti morali. Come nel caso di Tigrana, la sua Fidelia convince senz’altro più con la recitazione che col canto, mentre nelle Willis riesce a fornire un quid in più, forse anche per maggior congenialità del titolo in sé.

Parlando di queste ultime, si segnalano positivamente il buon Guglielmo Gulf di Giuseppe De Luca e anche il Roberto di Vincenzo Costanzo: sulla recitazione di quest’ultimo si potrebbero avere alcune perplessità (una su tutte il colore tenue scelto per il personaggio), ma di sicuro iniziare a recitare dopo la mezzanotte non dev’essere la situazione più comoda per proporre un piglio attoriale più passionale.


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