In cauda venenum
di Roberta Pedrotti
Cade sul finale kitsch e pasticciato la Turandot inaugurale del sessantesimo festival estivo allo Sferisterio. Non mancano elementi di pregio nella resa musicale, mentre la regia di Paco Azorin appare fragile quanto innocua.
MACERATA, 19 luglio 2024 - Liù muore, tutto si ferma in un compianto sublime. Il threnos culmina nell’ultima nota solitaria dell’ottavino, all'apice della commozione. Un attimo di silenzio e il pubblico applaude, ma il maestro Ciampa ha ancora la bacchetta in mano, il coro si schiera rapido intorno alla coppia ed esplode “O sole! Vita! Eternità!”
Così si fa a pezzi il pathos e il senso stesso di proporre l'Incompiuta pucciniana senza ricorrere a Alfano, Berio o altri completamenti che risolvano il disgelo di Turandot. Senza una vera soluzione drammaturgica, senza un filo drammatico, improvvisamente sul cadavere della piccola schiava si innalza il coro giubilante a mo' di sigla . Una caduta di gusto davvero pesante per una serata altrimenti non prima di elementi positivi, tant'è che la speranza (“che delude sempre”?) è quella che nelle repliche questa sciagurata idea venga cassata e si lasci piangere Liù in pace senza maldestre code con rimasugli alfanian-pucciniani ridotti a jingle.
L'inaugurazione della sessantesima estate operistica allo Sferisterio di Macerata si chiude inciampando dopo aver navigato in acque piuttosto sicure. Anzi, l'omaggio a Puccini nel centenario dalla morte aveva potuto contare – cosa niente affatto scontata – su una protagonista felicemente cantante più che urlante: Olga Maslova non è un carro armato vocale, una macchina per acuti al fulmicotone, è un soprano sicuro in tutta la gamma, dall'emissione morbida, ben dosata nelle dinamiche, capace di legare e sfumare, di trovare anche accenti non banali. Bene anche la Liù di Ruth Iniesta, dolce ma non fragile: conscia di un amore impossibile, attraversa senza un lamento durissime peripezie, mentre il trauma del ricordo di Lo-u-Ling rinchiude la principessa in un guscio protettivo di crudeltà. Iniesta è dunque il perfetto contraltare e complementare di Maslova: un buon canto ricco di sfumature e non lezioso, un fraseggio ben studiato porto con naturalezza, tutto al servizio di un personaggi che rispettano la polarità fra le figure femminili senza limitarsi allo stereotipo dello zucchero e dell'acciaio.
Un po' più opaco il Calaf di Angelo Villari, che è sempre valido professionista e offre una prestazione adeguata, ma denuncia anche in questa prima qualche segno di stanchezza e uno smalto un po' appannato. Riccardo Fassi è un pregevole Timur che si guadagna perfino un applauso a scena aperta su “l'anima offesa di vendicherà” (ferma restando la bontà dell'interpretazione, ci sarebbe da riflettere sul buon gusto di chi interrompe l'emozione di un momento simile in ossequio a una puntatura). Bene anche il terzetto delle maschere composto da Lodovico Filippo Ravizza (Ping), Paolo Antognetti (Pang) e Francesco Pittari (Pong), felicemente sottratti alla macchietta, anche se la regia di Paco Azorìn affianca loro un servo muto dai tratti troppo caricaturali. Fa un'ottima figura anche Alberto Petricca come Mandarino. Mauro Sagripanti presta voce al grido estremo del principe di Persia sovraesposto in scena come un San Sebastiano fin dalle prime battute nella figura di un bel giovanotto. Christian Collia, con il suo Altoum flebile come da tradizione, ci rammenta che invece la parte richiederebbe ben altra sostanza baritenorile. Le ancelle – dai nomi ignoti – e i cori preparati da Martino Faggiani (adulti) e Gian Luca Paolucci (voci bianche) completano una locandina nel complesso soddisfacente.
Del pari convincente è la direzione di Francesco Ivan Ciampa, che sceglie un passo ampio, quasi sacrale per la fiaba simbolica, con particolare attenzione a sonorità levigate di stampo quasi impressionistico. La Filarmonica marchigiana risponde assai bene, un po' meno la Banda Salvadei all'interno. Si entra gradualmente nella logica musicale dello spettacolo e se nel primo atto siamo ancora portati ad aspettarci una zampata fauve, nel secondo e nel terzo si apprezzano molti dettagli distillati con cura per delineare un lirismo non stucchevole, con un occhio al rapporto fra Puccini e la musica francese.
Diversi gradini più in basso, per qualità e interesse, sta la regia del citato Azorin, anche scenografo con la collaborazione di Ulises Mérida per i costumi, Carlos Martos de la Vega, Pedro Chamizo per video e proiezioni. Tutto molto tranquillo e innocuo: una struttura fissa stilizzata richiama alle architetture orientali, una risaia la circonda e si rispecchia proiettata sulla parete (un'allusione alla Traviata di Svoboda?), il popolo veste divise maoiste e cappelli di paglia, gli abiti son tutti di varia ispirazione cinese. Nulla che possa davvero impensierire i custodi della tradizione, ma il problema sta proprio lì, nel riconoscere che il punto non sia fornire immagini rassicuranti o sovversive, ma (per citare Verdi a proposito delle note “bello o brutte”) “darvi un carattere”. Cosa ci vuol dire della fiaba di Turandot e della lettura di Puccini, Adami e Simoni questo allestimento? Cosa significa la mondina in preda alla tosse condotta dietro le quinte dai tre ministri? Le amazzoni in goffe tute alari arancioni che mulinano frecce e lance come fossero majorette? Pu Tin Pao (sempre un'energica fanciulla) che brandisce un'alabarda in tutta plastica? Liù che chiede “lasciatemi passare” mentre nessuno si preoccupa di fermarla e prima che le guardie si decidano ad avvicinarsi? Per non parlare del grado zero dell'eros per le tentazioni offerte a Calaf nelle mondine infagottate in pantaloni e casacca (e dire che lì Puccini risulta davvero perturbante con il suo vagare armonico). Quando non si percepisce un'idea si notano tante piccole sciocchezze, nessuna decisiva singolarmente, ma alla somma delle somme tutte significative per consegnare uno spettacolo privo di stimoli e con troppe falle anche nella mera resa letterale del testo. Una volta in più si ricorda che la qualità non sta nel rapporto fra iconografia scelta e iconografia tradizionale, ma nella cura e nella logica della recitazione, nelle idee che si portano in campo. Sessant'anni allo Sferisterio, cento anni dalla morte di Puccini, potevano far sperare di più. Il compositore si considerava destinato a scrivere solo per il teatro e, dunque, proprio perché il versante musicale vantava valide frecce al proprio arco, un po' più di teatro senza indigeste invenzioni sul finale avrebbe senz'altro giovato. Difatti, non mancano applausi per tutti, ma la squadra registica passa quasi inosservata, senza variazioni d'intensità.