L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'equivoco della festa

di Roberta Pedrotti

Il galà televisivo dell'Arena di Verona, rimescolando le carte sull'effettivo oggetto del riconoscimento come patrimonio culturale immateriale Unesco, vuole essere occasione di festa, ma resta fondamentale, più che sbandierare medaglie e risultati, soprattutto riflettere e agire.

Il titolo della grande kermesse areniana del 7 giugno alimenta subito un grande equivoco, da cui poi sorgono congetture, divagazioni e commenti che in realtà non hanno ragion d'essere. Sì, perché non è l'opera lirica (italiana o globale) a essere stata inserita fra i beni culturali immateriali UNESCO, bensì la pratica del canto lirico italiano. È vero che quando il CPI (Cantori Professionisti d'Italia) più di dieci anni fa intraprese questo percorso, l'idea era proprio quella di avanzare la candidatura dell'opera, ma nel tempo il progetto – poi ereditato da Assolirica, principale promotrice dell'iniziativa – si è focalizzato sulla pratica del canto. Il motivo è bene preciso e riguarda la natura stessa dei beni culturali immateriali Unesco, che non sono tanto forme d'arte (altrimenti avremmo in lista l'affresco, il poema epico, il bassorilievo, il sonetto), quanto pratiche, saperi che si tramandano e costituiscono reti sociali e culturali. Ecco perché troviamo anche la pizza o la falconeria. Parlare di opera lirica può portare l'attenzione più su una serie di testi, parlare di pratica del canto lirico mette al centro un fare opera vivo e vitale in tutte le sue sfaccettature. Perché il canto lirico – nato in Italia e diffusosi in tutto il mondo – è canto teatrale, è pratica collettiva che coinvolge la formazione, l'insegnamento, il tramandare un sapere, così come coinvolge necessariamente, oltre agli autori, altri musicisti (pianisti, ensemble, orchestre, direttori senza i quali il corista e il solista non possono esprimersi), coinvolge tutto il lavoro sul palco e dietro le quinte (registi, scenografi, costumisti, macchinisti, artigiani, sarti, truccatori, etc.), coinvolge il pubblico, gli organizzatori, gli studiosi, i critici... La pratica del canto lirico è al centro di una rete necessaria di competenze, professionalità e passioni.

Ovviamente, entrare nel merito della pratica, della realtà della vita di chi ruota intorno ad essa, significa riconoscerne la dignità come un lavoro, significa confrontarsi attivamente con le problematiche che la riguardano. Quindi, significa porre in evidenza, per esempio, sul piano della formazione le criticità di una riforma dei conservatori che sembra aver creato più confusione che altro senza accrescere e rendere concretamente competitiva la qualità dell'insegnamento, fatte salve iniziative virtuose dei singoli. Questo significa parlare di una politica contrattuale e amministrativa ancora stagnante, in perenne attesa anche qui di una riforma risolutiva, mentre si consumano perpetui i balletti manageriali e i cicli di crisi, commissariamenti e risanamenti. Si potrebbe e dovrebbe discutere della figura del puro direttore artistico, fondamentale e purtroppo condannata dall'accorpamento con la carica del sovrintendente; oppure dei diritti delle edizioni e delle spese di noleggio delle parti che influenzano la libertà e la qualità delle scelte musicali ma dovrebbero pure tutelare il lavoro degli studiosi; del ruolo e dell'etica degli agenti; della professionalità della critica. E via così. Il riconoscimento Unesco – lo sanno bene le parti in causa e Assolirica – non è una medaglia da appuntarsi al bavero per pavoneggiarsi arzilli e pettoruti: è un impegno a una cura continua. Altrimenti, non è nemmeno detto che sia eterno.

Va bene, ci mancherebbe altro, festeggiare, purché il festeggiamento non diventi una deviazione verso una vetrina di propaganda per assicurarsi il merito del risultato fra le luci della ribalta. Ogni opportunità di ascolto può essere un seme d'interesse, può solleticare la curiosità a saperne di più, ma non si pensi che ad aver la coscienza a posto in tema di promozione e diffusione dell'arte basti un'abbuffata pot-pourri in prima serata.

Sulla serata stessa, peraltro, qualche distinguo andrebbe pur fatto, e non riguarda certo il valore di artisti ben noti i cui pregi e difetti abbiamo occasione di soppesare in ben più ampie e approfondite occasioni (in ogni caso, su questo punto, la parola spetta a chi la serata l'ha seguita dal vivo: Verona, Galà la Grande Opera italiana, 07/06/2024). Il guaio è, semmai, l'assenza di un filo conduttore, l'aver di fatto accostato due concerti diversi, uno dopo l'altro (sinfonie e cori con Muti; un po' di tutto con Ciampa e un elenco interminabile di cantanti e danzatori) per una serata monstre in cui si saltava da un autore all'altro, da uno stile e un genere all'altro, dall'esibizione concertante, semiscenica o scenica senza un'apparente logica. Senza, naturalmente, poter pretendere di rendere una panoramica esaustiva di un orizzonte tanto vasto. Già dell'opera – che si vuol celebrare e che sarebbe un organismo drammaturgico coerente e complesso – si presentano frammenti; poi, questi, sono variamente tagliati (possibile che con mezzi così imponenti si debba rinunciare a introduzioni strumentali e pertichini?); si danza sul Dies Irae del Requiem di Verdi ma quando si arriva alla marcia trionfale di Aida – coreografata secondo la recente produzione di Poda – si omettano i ballabili in cui sarebbe stato ben più naturale valorizzare l'arte di Tersicore. Sembra, insomma, che ci si muova a tentoni, a casaccio, all'insegna del “di tutto, di più”. La parata d'onore, la celebrazione, risulta alla fine piuttosto confusionaria, protesa ad abbagliare, gongolanti, più che a pensare. Ricordiamo, però, che il riconoscimento è un invito ad agire, a rimboccarsi le maniche, non a rimirarsi come i più belli del reame nel “luogo più italiano al mondo” (slogan che, dietro la maschera retorica, non vuol dire assolutamente nulla). Ricordiamo che l'opera è qualcosa di meraviglioso, che tutti amiamo, nata in Italia e diffusasi a rigermogliare in tutto il mondo, ma non è facendone una bandiera di cui vantarsi fra mille lustrini che le dimostriamo il nostro amore. Lo dimostriamo prendendocene cura con quel patrimonio immateriale inestimabile che è la pratica sorta – fra saperi musicali, teatrali, poetici, filologici, critici – con il canto che incarna un'azione sul palcoscenico.


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