L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Operazione nostalgia

di Giuseppe Guggino

Un tuffo nel passato è questa Fille du régiment, proposta nello storico e immarcescibile allestimento del Massimo palermitano del 1959, con le scene e i costumi firmati da Franco Zeffirelli; e il successo di pubblico è garantito.

Palermo, 17 e 20 settembre 2014. Accanto al notissimo Gianandrea Gavazzeni direttore operistico di grande intuito teatrale, esiste un Gavazzeni scrittore e saggista certamente meno conosciuto e forse molto più sofisticato, dagli orizzonti estetici e letterari impressionanti, oltre che dalle personali opinioni radicali – propugnate quasi con fanatismo – sul teatro e sulla musica. Una di queste, particolarmente ricorrente nei suoi monumentali diari (editi parzialmente da Einaudi sotto il titolo Il sipario rosso, molti anni or sono, oggi purtroppo fuori catalogo) è l’avversione assoluta per le scene tridimensionali e per i registi inclini all’uso della spazialità del palcoscenico e delle macchine teatrali; in più punti dei diari rievoca con nostalgia gli esiti raggiunti con Mino Maccari nel Il turco in Italia del ’51 all’Eliseo, con quinte e fondali dipinti, mentre rivolge – quasi ossessivamente – ripetuti strali (più o meno velati) ad un particolare regista à la page negli anni ’80 e ‘90. Confrontando il livello di manierismo insignificante e autoreferenziale recentemente rasentato da questo regista nella produzione inaugurale dell’ultimo ROF con il fascino fresco di questa Fille in scena a Palermo in questi giorni, a 55 anni dalla sua prima proposizione, non si ricavano che ulteriori conferme sull’infallibilità di istinto teatrale del Maestro concittadino di Donizetti. Dei tanti allestimenti visti e rivisti, da Sagi a Pelly, passando per quello macchinosissimo di Ronconi al Regio di Torino del 1994 (pensato come autocitazione del Guillaume Tell scaligero), è innegabile come questo di Palermo, con la regia ripresa calligraficamente da Filippo Crivelli, sia “La” Fille du régiment di riferimento, reperto archeologico del teatro operistico quanto si vuole, eppure sorprendentemente giovanissimo, perché la bidimensionalità derivante dai riferimenti all’iconografia delle sérigraphies acquerellate de l'Imagerie d'Épinal sono un’intuizione zeffirelliana perfetta per rendere il bozzettismo marziale e caricaturale della partitura e il carattere schietto dei suoi personaggi, appunto privi di una terza dimensione. Non una virgola di questa regia andrebbe toccata, giacché le gags sono sempre garbate, la gestione delle masse è da manuale per precisione ed eleganza, i dialoghi (opportunamente scorciati) gestiti nel migliore dei modi e ogni movimento dei solisti nei numeri chiusi volto a rispecchiare il formalismo musicale del pezzo: tutti i comandamenti per una perfetta regia d’opera. Peccato che a tanta freschezza in scena non corrisponda altrettanto gioco in buca, giacché a Benjamin Pionnier, seppur corretto, pare essere estranea la dimensione dell’opéra-comique che richiederebbe un’articolazione di suono più nitida dagli archi, una maggiore leggerezza dai legni e il prendere meno sul serio gli innumerevoli rulli di tamburo e colpi di Grosse Caissé della partitura; comunque sia, si disimpegnano con onore tanto il corno e la tromba nell’ouverture, quanto l’oboista alle prese con il corno inglese e il violoncello nei due passi obbligati rispettivamente della Romance e Air di Marie. Il primo cast riporta a Palermo Desirée Rancatore e Celso Albelo, entrambi in buona forma alla Prima, dopo aver trascorso il periodo delle prove in condizioni di indisposizione. La Rancatore ritorna al repertorio a lei forse più congeniale, dopo tante Violette e Gilde, e se ne giova non poco: il ruolo demi-caractère le consente di giocare perfino sulla sua nota disuguaglianza di registri (sebbene ne risulti talvolta inficiato il legato e la cristallinità della linea di canto nei momenti più patetici dell’opera), esibendo acuti dolci e flautati, coniugati ad una simpatia scenica assolutamente irresistibile. Celso Albelo è un tenore con l’oro in bocca, una vocalità assolutamente peculiare per il modo in cui si illumina per brillantezza di suono e volume allorché sale e gravita al di sopra del La; peccato che si ha sempre l’impressione di come la capitalizzazione di questa enorme ricchezza – sia sotto l’aspetto tecnico-vocale, che scenico – sia ancora da venire a maturazione; ci si accontenta degli otto do scritti (il primo sempre un po’ macchinoso e preso dal basso, il secondo ribattuto-tenuto sempre di bellezza impareggiabile) nonché di quello aggiunto alla fine della sua Cavatine, attendendo Godot da questo Tonio, ossia lo scatto di maturazione che dovrebbe esserci nel secondo atto con la Romance, rimasta solamente cantata correttamente. Vincenzo Taormina, dopo il dimenticabile Germont padre dell’anno scorso, torna a cantare bene e con morbidezza la parte di Sulpice, che gli vale un bel successo personale. Il secondo cast propone la Marie di Laura Giordano, avvantaggiata della sua nota presenza scenica briosa e frizzante, oltre che della sua linea di canto esile ma omogenea, perfettamente calzante al genere dell’opéra-comique, se non fosse per quei passi larmoyants che necessiterebbero una maggiore espansione lirica, risultata invece lievemente deficitaria per spessore e ricchezza di armonici, sia nella prima strofa di “Il faut partir” sia nel commosso racconto “Quand le destin, au milieu de la guerre” del finale. Giorgio Caoduro disegna un Suplice così ben cantato e perfetto in scena che per un secondo cast sarebbe da considerare quasi un lusso. Non altrettanto lussuoso è invece il Tonio di Mert Sungu, tenore dal timbro molto pregevole e schietto al centro che però si fa legnoso nel passaggio all’acuto, oltre che dall’assetto tecnico con molti, troppi, margini di lavoro. Francesca Franci conferma le sue doti di irresistibile caratterista come Marquise de Berkenfield, con l’ottimo Hortensius di Paolo Orecchia e il Caporale di Emanuele Cordaro; meno efficaci ma accettabili Giuseppe Bonanno, Pietro Archidiacono e Alfio Marletta rispettivamente Maestro di ballo, Notaio e Contadino. La tradizione di affidare la Duchesse di Crakentorp ad un uomo anche questa volta è ossequiata, con l’efficace Filippo Luna che sfoggia una divertente dizione siculo-francese. Una menzione particolare per la felice prova della sezione maschile del Coro diretto da Piero Monti, che fortunatamente ha il peso prevalente in quest’opera “militaresca”. Successo per tutti in un teatro con un nuovo-vecchio Sovrintendente appena insediato (il medesimo di quattordici anni fa) e le tante voci captate tra gli abbonati storici a cui l’allestimento ha riportato alla memoria come sovrastasse l’orchestra la voce puntuta della Serra al Politeama o come riuscisse a cantare Tonio Rockwell Blake, nonostante la gamba ingessata: operazione nostalgia perfettamente centrata!

 


 

 

 
 
 

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