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Palestrina in Egitto – una prima assoluta di Verdi con 150 anni di ritardo

Di Anselm Gerhard

Aida, l’opera di Verdi scritta esattamente 150 anni fa, subì le conseguenze della guerra franco-prussiana del 1870. Poiché, infatti, il teatro del Cairo aveva commissionato scene e costumi agli ateliers dell’Opéra di Parigi assediata dai tedeschi, la prima assoluta non poté aver luogo «durante il mese di gennaio 1871», come stipulato nei contratti. Alla fine, i melomani in Egitto dovettero aspettare il 24 dicembre di quello stesso anno, mentre la prima europea seguì l’8 febbraio 1872 alla Scala di Milano.

Quel fastidioso ritardo ebbe addirittura un effetto vantaggioso. Costretto ad aspettare, Verdi nell’agosto 1871 decise di rielaborare l’inizio del terzo atto: aggiunse la celeberrima romanza strofica per Aida («O cieli azzurri... o dolci aure native»), per nulla prevista nella partitura originale. Allo stesso tempo, tagliò un monologo di Aida in stile recitativo e sostituì il coro dei sacerdoti («O tu che sei d’Osiride») con una nuova musica dai profumi esotici. Anche se un contemporaneo di Verdi volle riconoscere nell’unisono dei sacerdoti egiziani il canto di un venditore ambulante di «boiènt i pèr còtt, boièèènt», di «pere cotte bollenti» a Parma, mentre alcuni critici moderni colsero un’eco del corale gregoriano.

Già dal 1913, data della pubblicazione dei Copialettere di Verdi, era noto che questo coro dalle tinte esotiche fosse stato scritto in sostituzione di un altro pezzo. Il 12 agosto 1871 Verdi aveva scritto al suo editore Ricordi, parlando di un «Coro a 4.° voci ben lavorato ad imitazioni uso Palestrina».

Ma solo nell’autunno 2019, quando il famoso «baule» di Verdi (quasi 5.000 pagine di musica manoscritta, ora preservate presso l’Archivio di Stato di Parma) è stato aperto ai ricercatori, anche la partitura di questa prima versione del terzo atto di Aida ha ritrovato la luce e per la prima volta è stato possibile studiarne la musica. Il brano «neopalestriniano» si rivela ben superiore a quello che ci si poteva aspettare dalla qualificazione beffarda nella lettera appena citata. Verdi aveva immaginato che il suo coro avrebbe potuto fargli «buscare un bravo dai parrucconi e […] aspirare […] ad un posto di contrappuntista in un Liceo qualunque», concludendo: «non sarò mai un savant in musica: sarò sempre un guastamestiere

Al contrario, il compositore non buttò per sempre questo coro: la stessa musica riapparirà, con modifiche soltanto testuali, nella «Messa da Requiem» del 1874.

Ascoltando questa prima versione della scena alle rive del Nilo si pongono parecchie domande. Il coro dei preti «ad imitazione uso Palestrina» significava per Verdi un esercizio di stile, sterile, da pedante insegnante di contrappunto? Sappiamo invece che professava una grande ammirazione per Palestrina. In una lettera del 5 agosto 1871 sostenne che «la musica del primo coro dell’atto terzo» non fosse «abbastanza caratteristica». Allora perché farne un riuso in una composizione così importante come la «Messa da Requiem»? Forse un contesto liturgico poteva allora reggere una musica poco profumata, troppo savant per dirla con le parole del compositore, il teatro invece no?

Verdi voleva attenuare l’analogia fra sacerdoti egiziani e preti cattolici del suo tempo, resa (troppo) ovvia da una musica «uso Palestrina»? Oppure non volle più attribuire le sonorità armoniose del suo coro in Fa maggiore a quei «tigri infami di sangue assetate» al servizio della «chiesa» faraonica? O addirittura rendere ancora più palesi le possibili analogie fra gli «inesorati ministri di morte» e il clero italiano del suo tempo, grazie al riferimento al canto gregoriano appena ristabilito in alcune liturgie? Spetterà al pubblico della prima esecuzione assoluta il compito di trovare risposte a queste (e forse anche a tante altre) domande.


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