L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ancora un Requiem

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia presenta come penultimo concerto in cartellone estivo il Requiem K. 626 di Wolfang Amadeus Mozart, preceduto dalla sua Sinfonia n. 35 “Haffner” in Re maggiore K. 385. L’orchestra è quella dei Conservatori Italiani, che si è lasciata apprezzare anche lo scorso anno; direttore Giuseppe Mengoli, voci soliste: Valentina Mastrangelo (soprano), Francesca Ascioti (contralto), Luigi Morassi (tenore) e Roberto Lorenzi (basso). Il coro è quello dell’Accademia.

ROMA, 18 luglio 2024 – Il cielo è terso, ma la serata è afosa. La cavea esterna dell’Auditorium si riempie di un numeroso pubblico pronto a godere di uno dei capolavori di tutti i tempi, il Requiem di Mozart, che fa da dittico a quello verdiano eseguito lo scorso anno, sempre nella stagione estiva dell’Accademia e con la medesima orchestra (leggi la recensione). L’Orchestra dei Conservatori Italiani, infatti, è un’eccellenza nazionale che raccoglie i più giovani talenti per farli suonare assieme. A dirigere la serata è un altro giovane emergente, il direttore Giuseppe Mengoli, al suo debutto nei cartelloni di Santa Cecilia. La soirée d’été, è il caso di dire, si apre con l’esecuzione della mozartiana Sinfonia n. 35 “Haffner”. Fin dalla Haffner si comprendono le caratteristiche direttoriali di Mengoli: ottimo senso del ritmo, attenzione alle variazioni di volume sonoro e ricerca (talvolta eccessiva) dell’effetto, soprattutto sciogliendo un’agogica, a tratti, troppo incalzante. In realtà, la Haffner mostra una certa compostezza. Pregevole l’attacco dell’Allegro con spirito, pomposo, come pure tutto il movimento, che rimane brillante. Se le doti ritmiche di Mengoli emergono con chiara limpidezza, anche quelle dell’Orchestra si fanno apprezzare, benché l’acustica amplificata osti alla naturale fruizione del suono. Il problema dell’Orchestra dei Conservatori è la tenuta di alcuni strumenti, la pulizia di alcuni passaggi; insomma, particolari che non inficiano una pregevole riuscita complessiva, ma sui quali i singoli orchestrali lavoreranno nel corso della loro carriera. L’Andante si presenta delizioso, nel suo puro stile galante, con qualche problema lieve nelle puntate acute degli archi e in alcuni passaggi. Magniloquente, haydniano il Minuetto, i cui momenti di assolo del Trio potrebbero riuscire meglio (ecco, l’orchestra dovrebbe lavorare anche sulla tenuta del suono nei momenti di passaggio pieno/vuoto). Il Finale: Presto riesce brillante, brioso e chiude la sinfonia fra gli applausi del pubblico.

Entra il Coro dell’Accademia, un minimo di pausa per esigenze tecniche e si attacca il Requiem. Qui Mengoli affronta una partitura ben più ardua, ma la sua idea agogica è ben scolpita: dove può, Mengoli slancia l’orchestra, per creare effetti dinamici, per esaltare colori e ritmi – purtroppo, il risultato, come vedremo, non è sempre apprezzabile. In generale, è un Requiem agogicamente sostenuto, più di altre letture tradizionali, ieratiche. L’Orchestra, comunque, risponde bene agli stimoli di Mengoli, il quale infonde sangue in una partitura, in effetti, talvolta trattata come un cristallo troppo limpido. E lo si nota fin dall’Introitus, ben scandito, spedito. Il Coro dell’Accademia intona un Requiem eccellente, ricco di chiaroscuro, anche se gli evidenti problemi di acustica affliggono non poco l’armonia complessiva delle compagini vocali. Nel Kyrie si nota, forse per la prima volta, l’idea agogica di Mengoli: direzione speditissima, quasi una cavalcata, con orchestra e coro a tratti al massimo della potenza. Quasi non c’è differenza col successivo Dies irae, per antonomasia il momento più ‘impetuoso’ della celebre partitura. Mengoli scatena coro e orchestra: il risultato è buono, certo non pregevolissimo in tutti i particolari (in queste situazioni si può perdere in controllo). Il senso di angoscia, comunque, è ben infuso. Nel Tuba mirum si possono ascoltare, per la prima volta, tutti i solisti. Roberto Lorenzi è dotato di una voce duttile, squillante, non particolarmente brunita, ma adatta al ruolo; il tenore Luigi Morassi stupisce per potenza vocale, voce lievemente baritonale, emissione limpida (un po’ troppo vibrata); Francesca Ascioti è un contralto dalla voce elegante, piena, colorata, ma perde un po’ in volume; Valentina Mastrangelo è un soprano elegante, dalla voce ricca di colori, argentina, benché, anche lei, talvolta perda in volume. Il quartetto si amalgama abbastanza bene, come si evince durante l’intera performance: la Mastrangelo si staglia, acuta, quando deve; la Ascioti crea una linea elegantissima, invidiabile per eleganza di fraseggio; Morassi, a causa della generosità vocale, è sempre ben udibile, chiaro e squillante e, paradossalmente, in un paio d’occasioni avrebbe fatto bene a controllare maggiormente il volume; Lorenzi si lascia apprezzare, soprattutto per la tessitura medio/alta. Come dicevo, il Tuba mirum scorre piacevole; molto bello il Recordare, dove le diverse voci si rincorrono, creando un contrappunto sublime: l’abilità vocale del gruppo si apprezza, forse, più qui che altrove, non foss’anche per la ricchezza delle linee vocali, delle riprese, delle melodie. Il coro risponde, del resto, con un potente Rex tremendae, un Confutatis dove Mengoli è abile ad alternare l’energia dell’evocazione delle fiamme infernali con il sublime anelo della salvezza (da Mozart – e dai suoi aiuti – reso con l’alternanza fra coro maschile/femminile). Il Lacrimosa risente, anch’esso, dell’agogica sostenuta impressa dal direttore, con il coro che deliba la mesta linea del canto. Anche l’Offertorium, che ha carattere rigoroso, ben scandito dagli interventi del coro, riesce bene, come lo ieratico Sanctus ed il placido Benedictus. Il Requiem si conclude con un accorato Agnus Dei, fino a spegnersi nella ripresa della fuga del Kyrie sulle parole del Lux aeterna. Gli applausi suggellano il buon esito della serata.


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