La farfalla non volò
di Sergio Albertini
Deludente ripresa di Madama Butterfly al Lirico di Cagliari: Daniela Zedda non rinnova la poesia della regia originale di Keita Asari e Gianluca Martinenghi offre una concertazione di sciatta routine.
CAGLIARI, 30 giugno 2024 - Nel marzo del 2021, per due recite, Madama Butterfly venne eseguita al Teatro Lirico di Cagliari a porte chiuse, a causa dell’Ordinanza del Ministero della Salute per contenere la pandemia da COVID-19, e diffusa in diretta e in streaming su emittenti locali. Si trattava dell'allestimento originale del Teatro alla Scala (oggi di proprietà dell'ente lirico cagliaritano) che portava la firma di Keita Asari. La poetica versione firmata in trio con Ichiro Takada (scene) e Hanae Mori (costumi) nacque infatti per il teatro milanese nel 1985 con la direzione Lorin Maazel, venne ripresa da Riccardo Chailly nel 1992, e ancora molte altre volte; tra le tante, nel 2004 agli Arcimboldi, direttore Bruno Bartoletti, nel 2011 per la direzione di Myung Whun Chung. Uno spettacolo che ha oramai una quarantina d'anni e che ha girato molto, in Italia e all'estero (nel 2007 in Cile, nel 2008 a Valencia, nel 2012 a Orsu, Giappone, nel 2017 all'Israeli Opera).
Asari, che era nato nel 1933, è morto nel 2018; questa riproposta (con le luci – ottime - di Marco Filibeck riprese da Andrea Ledda) porta la firma di Daniela Zedda che il programma di sala riporta come “regista, da un'idea di Asari”. Un'idea che, di fatto, è l'intero spettacolo sicché la definizione è davvero non solo riduttiva, ma inspiegabile. Nell'intervista rilasciata sul programma di sala Zedda non ci spiega come ha conosciuto il lavoro di Asari, se ne è stata assistente, se ha lavorato a qualche ripresa, o se la sua esperienza riguarda registrazioni video. È vero, Zedda dichiara di essere intervenuta qui e là. Poche cose, e non buone. Ricordo, ad esempio, nella recita vista agli Arcimboldi, che gli spettatori entravano in sala a sipario aperto e a luci accese; i kuroki, i servi di scena tipici del teatro No, indossavano un abito nero e un velo, sempre nero, copriva il loro volto. La costruzione della casetta sulla collina partiva dal basamento, cui, pian piano s'aggiungevano i pannelli e i pochi arredi. Nella 'rivisitazione' di Zedda, a luci spente, s'apre il sipario; i kuroki per pochi minuti, in fretta e furia, fanno scorrere gli shoji; entra il direttore d'orchestra, scattano gli applausi, inizia l'opera. Altro 'aggiustamento' di Zedda: nel duetto tra Suzuki e Cio Cio San i kuroki – nello spettacolo di Asari – stavano ritti in piedi, reggendo vassoi pieni di grandi petali colorati; qui sono sostituiti da sei-ballerine-sei che accompagnano il duetto con leziosi (e molto distraenti) movimenti, spargendo anch'esse petali, anche quando questi sono invero finiti.
Forse, però, quando si riprende, tentando un minuzioso lavoro di 'recupero filologico' o quasi, bisognerebbe anche stare attenti al rapporto col libretto: Asari, almeno nella recita da me vista, e nell'edizione video registrata diffusa commercialmente, rispetta per il figlio di Madama Butterfly sia i riccioli, sia il colore biondo, come nelle parole pronunciate dal soprano; Zedda sceglie per Dolore (qui David Ceraulo Mancosu) un bimbo dai capelli lisci e castani. In questa ripresa, inoltre, “Va! Gioca, gioca” è rivolto a un'ombra, una silhouette dietro un pannello. Suggestivo forse, ma toglie drammaticità al finale.
A Cagliari, sul podio, c'è un debutto, quello di Ganluca Martinenghi, ed è un debutto di cui Cagliari avrebbe potuto proprio fare a meno. Se omaggio a Puccini per il centenario voleva essere, temo che Puccini, dall'aldilà, non abbia gradito. Una palude sonora senza vere dinamiche, prevalenza di sonorità forti che slittano più nella faciloneria che nella trasandatezza. Sin dall'inizio, una fuga a quattro voci, l'orchestra del Lirico appare come sottotono, senza l'impulso dinamico necessario; le leggerissime frasi punteggiate da melismi che precedono l'entrata dei parenti di Cio Cio San sembrano spianate e prive della loro ricchezza timbrica. Il Largo che segna l'entra in scena della geisha è piuttosto molliccio, lontano da quella tensione in crescendo che anticipa la struggente condizione della protagonista. Si proseguirà così, con una 'marcia' in automatico dell'orchestra, attraverso tutta la ricchissima tavolozza timbrica che sembra spegnersi anche nei momenti topici (il duetto del primo atto, senza abbandono e senza languore). Una conduzione orchestrale, quella di Martinenghi, che sembra non avere alcuna chiave di lettura se non quella, appunto, di 'leggere' la partitura. Invece di conferire valore a ogni singolo momento, livella tutto con un puccinismo di routine.
Quando entra in scena, all'inizio dell'opera, Monica Zanettin, si capisce che avremo una Butterfly con un'ala sola; la scelta di non utilizzare la variante che porta fino al Re bemolle sovracuto, che va attaccato di forza, toglie quel senso di felicità e di 'volo' che porta il suo canto verso l'amore. Zanettin tocca con sicurezza il Do alla fine del duetto, così come i numerosi Si che costellano la sua parte; il fraseggio è corretto quanto anonimo, la progressione psicologica di Cio-Cio-san manca di percepibile caratterizzazione. La Suzuki di Agostina Smimmero è matronale, nella definizione scenica come nell'insistere sui suoni di petto; il Pinkerton di Carlo Ventre ha un buon legato, un registro acuto di sfolgorante e (ostentata) sicurezza, ma prevale la sgradevole noncuranza con cui disegna il suo ruolo; appena sbozzato appare anche lo Sharpless di Alberto Gazale, con qualche incrinatura nel canto di conversazione.
Nella selva delle seconde parti, il flebile Goro di Christian Collia; efficaci tutti gli altri.
Impeccabile la prova del coro da Giovanni Andreoli.
Ampio e prevedibile il successo di pubblico.