L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Bella come un'aurora, bella come il tramonto

di Roberta Pedrotti

Successo per La bohème allo Sferisterio di Macerata nella ripresa del fortunato allestimento di Leo Muscato con la direzione di Valerio Galli e la Mimì di Mariangela Sicilia.

MACERATA, 27 luglio 2024 - Essere artisti significa dare senso ad ogni dettaglio, far sì che tutto sia necessario e nel contempo dissimularlo con naturalezza, come se ciò che è studiato fosse spontaneo. Quando nel terzo quadro Mimì intona “Donde lieta uscì” e arriva per la prima volta alla parola “amore”, la voce di Mariangela Sicilia vibra in modo leggermente diverso; un cambiamento quasi impercettibile eppure significativo di quel tremito che emerge nel controllo del commiato. Questo è all'atto pratico essere artisti: quasi non ci si rende conto dell'inflessione di un accento, ma c'è, esiste, perché è parte del personaggio costruito sulla scena e nella musica. Questo è il principio che permea il canto di conversazione pucciniano e il famoso tocco del dito mignolo di Dio che lo spronava a scrivere solo per il teatro. Ed eccolo lì, il teatro, anche nel filato sofferto nell'espressione quanto impeccabile musicalmente su cui scandisce l'ultimo “Addio, senza rancor” o, poco oltre, “Vorrei che eterno durasse il verno!”, è la lievità scanzonata, assetata di vita della prima Mimì, già malata, è il colore della morte consustanziale all'ultimo afflato di passione.

La bohème è un'opera corale, ma Mimì, se non la protagonista, è il fulcro del suo nodo drammaturgico: la sua malattia e la sua morte non hanno nulla di eroico e tragico, che non sono il sacrificio di Violetta sono la fine dell'età di inganni e di utopie all'età adulta, è il passaggio dai sogni e dalle chimere alla consapevolezza del dolore. Questo fulcro prende forma nell'arte e nella naturalezza di Mariangela Sicilia, maestra nell'unire il legato e l'articolazione della parola, nel carpire il senso intimo del testo plasmando gli armonici in una ricchissima gamma dinamica, la varietà di colori di una voce che si è fatta più brunita senza appesantirsi. Per questo ci commuoviamo: riconosciamo un'immagine della vita vera, sempre valida, in cui immedesimarsi ai tempi di Murger, a quelli di Puccini, ai nostri.

Il terzo titolo operistico del sessantesimo festival estivo allo Sferisterio, il secondo in omaggio al centenario pucciniano è legato agli altri dal filo conduttore di immagini lunari in punti chiave del libretto, ma anche dalla presenza di due parti principali sopranili e sono proprio queste, ancora una volta, a trascinare la serata al successo. Sicilia è la Mimì dei nostri giorni e il piccolo, immediato gesto di complicità che la regia di Leo Muscato regala loro al Caffé Momus resta come un simbolo del felice dualismo instaurato con la Musetta di Daniela Cappiello. Il soprano campano, dalla linea di canto morbida e duttile, non ha bisogno di spingere troppo il pedale della sfrontata frivolezza o del pathos per restituire una figura sincera e libera, perfettamente complementare a quella di Mimì.

Nel composito microcosmo della soffitta dei bohèmien, peraltro, gli equilibri si bilanciano fra l'esperienza di Mario Cassi (Marcello) e la fresca esuberanza di mezzi del Rodolfo di Valerio Borgioni. Con il tempo potrà senz'altro sciogliersi come interprete più sfumato, ma non si può dire che questo squillo un po' irruente non si addica al giovane che si butta a capofitto nel colpo di fulmine e di rivela umanissimo antieroe roso dall'inadeguatezza di fronte alla malattia dell'amata. Immaginando anche l'emozione del debutto allo Sferisterio, il buon esito complessivo ci fa sperare che il tempo possa portarlo ad affinarsi sempre più. L'altra metà del quartetto, i single Schaunard e Colline, è servita bene assai da Vincenzo Nizzardo, azzeccatissimo della caratterizzazione rock impostata dalla regia, e da Riccardo Fassi, che completa così il suo tour de force nelle parti principali di basso delle tre opere in cartellone, impresa compiuta con onore ma che speriamo resti un'eccezione.

Per reggere le fila dell'opera corale, con il fulcro-Mimì, un altro imprescindibile punto di forza è nello spettacolo nato nel 2012 con la regia di Leo Muscato (qui ripresa da Alessandra De Angelis), con scene di Federica Parolini, costumi di Silvia Aymonino e luci di Alessandro Verazzi (riprese da Ludovico Gobbi). L'ambientazione sessantottina è perfettamente coerente con sogni, chimere, inganni e utopie, ma anche con l'insegnare il canto (presumibilmente politico) e dipingere i guerrieri (manifesti di lotta con operai in marcia) di Musetta e Marcello nel terzo quadro, così come funziona e diverte il Momus in stile discoteca-happening, con Alcindoro (Giacomo Medici) ricco e stravagante, diversissimo dal Benoît di Francesco Pittari, tipico mediocre di periferia che cerca di sfruttare un minuscolo patrimonio immobiliare (forse poco più di un soppalco) per godersi qualche vizio. Tutti i personaggi sono ben caratterizzati e, compatibilmente con gli ampi spazi maceratesi, non manca la cura del dettaglio, mantenendo viva l'attenzione fino al finale, con il letto d'ospedale della defunta Mimì viene trascinato via rapidamente dalle infermiere. Non era riuscita a raggiungere l'ultima volta la soffitta, svenuta era stata ricoverata e “quell'andare e venire” è quello del personale medico: non si perde un briciolo di poesia, a conferma che non è l'adesione letterale, ma il rispetto del senso a contare soprattutto. Muscato sembra decisamente più sensibile alle ragioni del teatro romantico e naturalista che a quelle del barocco e del classico e lo conferma con il rinnovato successo di una produzione felicemente iscritta nella tradizione delle moderne Bohème che, da Ken Russell a Graham Vick, ci hanno ricordato come questa non sia una suggestiva pittura storica, ma l'opera in cui Puccini ha raccontato il suo vissuto e permesso alle generazioni a venire di identificarsi allo stesso modo nel racconto della scoperta della vita.

Sul podio, con una produzione già ben collaudata, si gioca la carta parimenti sicura di una bacchetta che a Puccini è sempre stata devota. Dopo le belle recite della Rondine dello scorso dicembre, Valerio Galli torna sul podio della ICO regionale, la Form: non più di fronte a una – relativa – rarità, ma a una delle partiture più popolari di tutto il repertorio, si avverte la volontà di far sentire la propria firma personale. Prevalgono agogiche leggermente più trattenute del solito, senza concedere troppi abbandoni, l'equilibrio fra palco e orchestra è sempre ben salvaguardato. Fila tutto liscio, chiaro e vivace, al Caffé Momus con gli interventi del Coro Lirico Marchigiano diretto da Martino Faggiani – da cui provengono Parpignol (Alessandro Pucci), i doganieri (Davide Filipponi e Gianni Paci) e il venditore (Andrea Ferranti) –, dei Pueri Cantores D. Zamberletti preparati da Gian Luca Paolucci e della Banda Salvadei. Ben trovato è, però, soprattutto il colore generale conferito all'epilogo, sempre più rarefatto e commovente.

Nella generale soddisfazione, il terzo titolo dell'estate maceratese debutta fra gli applausi ben distribuiti per tutti, con una meritata punta d'entusiasmo per Mariangela Sicilia.


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