L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Sotto la Norma

di Francesco Lora

Il capolavoro di Bellini esce ammaccato dall’allestimento al Festival della Valle d’Itria, il cui dichiarato riferimento a quello del 1977, con la Bumbry e la Cuberli, non ha più senso storico né convenienza di battage. I problemi si diffondono a tutto campo nella concertazione di Fabio Luisi, nella regìa di Nicola Raab e in una compagnia di canto senza il conforto d’interpreti italiani.

MARTINA FRANCA, 21 luglio 2024 – Se nel passato è stata fissata una pietra miliare, guai a tentarne un remake in tempi d’incertezza. Il Festival della Valle d’Itria festeggia quest’anno la cinquantesima edizione: offrendo Norma di Bellini come titolo inaugurale – quattro recite dal 17 luglio al 2 agosto – ha dichiaratamente teso un riferimento all’allestimento della stessa opera, nello stesso cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca, quale avvenne nel 1977 con Grace Bumbry come protagonista, Giuseppe Giacomini come Pollione e Lella Cuberli come Adalgisa; un’interpretazione storica. Si disse innocentemente allora, e si ripete pappagallescamente oggi, che il prezioso tratto di novità stesse nell’affidare le due principali parti femminili non a un soprano e a un mezzosoprano, secondo una classificazione storicamente successiva, bensì a due soprani, quali dovevano essere le prime destinatarie dei ruoli, l’arcidiva Giuditta Pasta e l’emergente Giulia Grisi. L’anno successivo, Riccardo Muti riaffermò l’asserto itriano, calando al Maggio Musicale Fiorentino un’altra coppia di soprani di prima sfera, Renata Scotto e Margherita Rinaldi. Col senno di poi, il discorso su quel particolare aspetto del capolavoro belliniano e su quel memorabile spettacolo martinese è oggi un tantino più articolabile, plasmato non solo sui quarantasette anni di fatti musicali intercorsi dal 1977, ma anche da una più matura consapevolezza del testo di Norma e della sua tradizione esecutiva. Si danno alcuni spunti prima di buttarsi negli scabrosi gorghi della recensione vera e propria. Nel 1977 l’opera in questione apparteneva al repertorio corrente ed era variamente travisata con semplificazioni, tagli e trasposizioni, mentre la Bumbry e la Cuberli erano artiste ben al di sopra dei confini di registro (soprattutto la prima, anche mezzosoprano) e dell’ordinarietà tecnica (soprattutto la seconda, virtuosa ineffabile). Si guardava dunque il dito dei due soprani, in astratto, e ci si lasciava sfuggire la luna di quelle due cantanti d’eccezione: molto più che due soprani. A voler essere più sottili, il nocciolo dell’operazione stava nel ripristino della (quasi) integrità dell’opera e in quello di calibri vocali ritenuti stilisticamente più attendibili: mentre l’adolescente Adalgisa era sgravata da matronali suoni bronzei e ubertosi, la sacerdotale Norma guadagnava timbro, accento e spessore nel registro centrale. Nei quarantasette anni successivi le vicende del capolavoro belliniano sono state le più imprevedibili: esso prima è pressoché scomparso dalle scene per essersi beccato la fama di opera ai limiti dell’ineseguibilità, poi è tornato con tale frequenza da schiudere il campo a un’estrema e spigliata varietà di soluzioni esecutive; almeno tre edizioni critiche – o sedicenti tali: ve n’è una che, per ipercorrettismo, fa ascoltare anche le strofe mai poste in musica dal compositore – si fanno attualmente guerra alternandosi con i vecchi materiali zeppi di pasticci. Oggi, insomma, Norma è tornata a essere pane quotidiano, e la questione delle due principali parti femminili è pacificamente risolta con cantanti che trascorrono dal soprano più leggero e cinguettante al più contralteggiante mezzosoprano, passando magari da Norma ad Adalgisa e viceversa (il caso di Carmela Remigio, soprano, da lustri e ovunque, e di Vasilisa Berzhanskaja, mezzosoprano: a Genova è stata una protagonista impegnata ma affaticata, utile a chiarire che la parte è sopranile, e l’anno prossimo sarà l’altro personaggio a Milano). L’unica regola, ai fatti, è disporre di una somma prima donna e munirsi di una seconda donna in grado di reggere con lei il confronto nella coppia di duetti che le impegnano alla pari (Do sopracuto compreso). Chiosa di carattere storico-testuale, per gettare ulteriore scompiglio: mentre si sta a disquisire dei due soprani, pochi sembrano tornare alla partitura e ai documenti; risulterebbero allora chiari dati irrefutabili; per esempio: che la scena di sortita di Adalgisa («Sgombra è la sacra selva») presenta note e tessitura invero gravi (affondo fino al Si bemolle sotto il rigo) per essere considerate univocamente sopranili; che la Grisi, prima Adalgisa, possedette sì i Mi bemolle sopracuti dei Puritani (1835), ma in Zelmira di Rossini aveva tenuto la parte contraltile di Emma (inclusa l’aria aggiuntiva: 1828); che, infine, la prassi di canto protottocentesca tollerava disomogeneità di registro ed espedienti tecnici – stop closure damping in testa – riflessi nella musica scritta e mal tollerati in epoca successiva. Cosa resta di tante chiacchiere paramusicologiche?

La Norma martinese del 2024 ne esce ammaccata, sia per l’intento dichiarato, sia per i modi di risolverlo. Altri aspetti meritano di essere premessi alla questione – insussistente, se non è chiaro – dei due soprani. Il primo è quello della concertazione, spettante a Fabio Luisi, direttore musicale del Festival nonché – il dato è più che una mera curiosità – bacchetta designata onde riportare il capolavoro belliniano al Teatro alla Scala, l’anno prossimo, dopo quarantotto di spiazzante latitanza. Nell’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari egli si serve di un numero d’archi maggiore di quanto non serva nell’ottima acustica del cortile ducale, a discapito del giusto rapporto di peso sonoro con i legni; vi giustappone, per gli interventi da dietro le quinte, la sfarzosa, benvenuta, idiomatica Banda musicale martinese “Armonie d’Italia”; privilegia la componente ritmico-percussiva al cesello dei fraseggi nelle note «lunghe, lunghe, lunghe melodie» belliniane così definite da Verdi; richiama con lodevole calligrafia taluni echeggi degli ottoni e lamenti degli strumentini, finora negletti dai colleghi; preferisce nondimeno condurre il grosso del lavoro all’insegna di sonorità spiegate e impassibili, alla maniera di un inno nazionale protratto per due ore e mezza abbondanti; esegue l’opera integralmente, lasciando al suo posto anche qualche breve passo che Bellini stesso avrebbe espunto nella ripresa veneziana del 1832; manda ogni buon proposito all’aria, però, quando al di fuori della comprensibilità, nell’intoccabile coro «Guerra, guerra! Le galliche selve», taglia venticinque battute intermedie – pari a meno di venti secondi d’ascolto – e boicotta la struttura poetica e musicale del brano; dispone o tollera, per la verità, più di una stranezza nell’uso del coro inteso come compagine del Petruzzelli: lo fa perlopiù cantare dentro le strutture che serrano la scena sui lati, nascosto da tulle ed escluso dall’azione, ma lo fa uscire nella situazione tra tutte la meno acconcia, ossia il richiamo da dietro la scena nel terzetto finale dell’atto I (il coro tuona alle spalle del pubblico, assurdamente coprendo i cantanti). Una concertazione, in definitiva, offuscata da ombre, aggravata – come si leggerà – da un discutibile lavoro con la compagnia di canto e preoccupante qualora riapplicata alla Scala: se si stesse parlando di politica anziché di musica, il caso sarebbe – così avveniva al tempo nel quale si era signori – da richiesta di dimissioni. Parole minime sulla regìa di Nicola Raab, che ai fatti è piuttosto una mise en espace mediante la quale i cantanti escono in scena, cantano e rientrano in quinta scansando il bisticcio con i leggii. Le scene e i costumi, di Leila Fteita, altro non sono invece che lo scheletro, asemantico, di quelli, invece azzeccati, di un successivo allestimento del Festival, Aladino e la lampada magica di Nino Rota. I famigerati due soprani consistono in Jacquelyn Wagner, come Norma, e in Valentina Farcas, come Adalgisa. Pesce fuor d’acqua è la Wagner, dedita soprattutto al repertorio germanico e senza significativa esperienza nell’opera italiana della prima metà dell’Ottocento: è glaciale nell’espressione, non sa come scolpire la parola e la contamina con fonetica statunitense, ha emissione fissa quando la si vorrebbe vibrante e tremula quando la si vorrebbe ferma, si preoccupa delle note una per una anziché legarle in un fraseggio, stride oltre i limiti della giusta intonazione nei parecchi acuti da prendere di salto; meglio, dunque, se non si fosse arrischiata al di là di Wagner, Mahler, Strauss e gli altri autori che alimentano la sua internazionale fama di brava interprete. Più versatile e più disinvolta risulta la Farcas, che però ha mezzi ordinari e sembra in primo luogo ricordare come quella di Adalgisa sia una parte fatta di duetti, non premiata da un’aria né dalla presenza nell’ultimo terzo dell’opera. Materiale interessante, simpatia scenica ma insufficienza tecnica convivono nel Pollione di Airam Hernández, che inizia omettendo il Do sopracuto nella cavatina e procede forzando sul passaggio al registro acuto. Tonante e pietroso, senza affetto paterno, l’Oroveso di Goran Jurić. Compagnia completata da Saori Sugiyama, come Clotilde, e Zachary McCulloch, come Flavio, e anche compagnia disomogenea, non guidata a un’idea comune da Luisi. A proposito: i cantanti erano nell’ordine una statunitense, una rumena, uno spagnolo, un croato, una giapponese e un neozelandese. C’è chi ha sottolineato con fierezza questa formazione internazionale: ma è un vanto lasciare a casa gli italiani per fare la Norma di Bellini?


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