L’Ape musicale

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Note musicali di Francesco Cilluffo

“Un’opera ha successo solo se il compositore riesce a riempirla di tanti tipi di musica diversa”. Questo il principale suggerimento che Benjamin Britten era solito dare, e che mi è stato tramandato durante i miei studi londinesi da David Matthews e Alexander Goehr, due tra i suoi più famosi allievi.

Nel seguire questo consiglio molto “artigianale” (ma che si potrebbe tranquillamente applicare a capolavori come Carmen o Traviata) con un occhio tipicamente britannico alla praticità, si potrebbe trovare la principale formula del successo del Midsummer Night’s Dream di Britten; ad ogni mondo dell’azione corrisponde, infatti, un preciso e particolare universo musicale, ben delineato eppure appartenente ad una concezione unitaria dell’opera.

La mancanza, rispetto all’originale di Shakespeare, della cornice narrativa fornita dalla reggia di Teseo (che nell’opera compare solo nella seconda parte del terzo atto), ci indica che è proprio nella foresta - luogo dell’altrove rispetto alla polis di Atene - l’interesse di Britten, che fa iniziare l’opera nel bosco umido e notturno: la vegetazione è simbolo di fertilità e contaminazione, di scambio e gioco, tra pericolo e trasformazione. Già nell’introduzione orchestrale del primo atto ascoltiamo gli alberi quasi “respirare” attraverso i prolungati glissandi, un materiale musicale che tornerà nei successivi ritornelli orchestrali; ricordiamo quanto nel Novecento musicale il glissando sia simbolo di trasformazione ma anche di allusione erotica (si pensi all’Enfant et les Sortilèges di Ravel, alla Lulu di Berg ma anche al Bartok della Cantata Profana, senza dimenticare Curlew River dello stesso Britten). Proprio il bosco è, nell’immaginario omosessuale coevo di Britten, anche il luogo della fuga dall’oppressione sociale, come è chiaro dal finale del Maurice di E. M. Forster (che fu anche librettista del Billy Budd di Britten) e, a ritroso, nella poesia di Walt Whitman.

In questo regno notturno troviamo la coppia sovrannaturale di Tytania e Oberon, le fate e il folletto Puck, tutti caratterizzati da una sonorità allucinata e sempre un poco sinistra che vede nell’impasto timbrico di celesta, clavicembalo, due arpe e percussioni la propria cifra caratteristica. Si tratta di un mondo musicale che si ispira al suono degli ensemble di gamelan il cui ascolto tanto aveva impressionato Britten nel suo viaggio a Bali nel 1956 (importantissimo per la scrittura del balletto The Prince of the Pagodas del 1957) e che nella produzione tarda del compositore caratterizzeranno l’innocenza amorale infantile, fino a sfociare nei Games of Apollo danzati alla presenza di Tadjou e Aschenbach in Death in Venice. Sotto questo aspetto Britten sembra aver replicato l’esperienza epifanica di Debussy nell’ascoltare lo stesso tipo di musica all’Esposizione Universale di Parigi del 1889. Puck, unico personaggio che non canta ma parla (una sorta di parlato ritmato, libero nell’intonazione), e che vede nella tromba (alla quale si richiede un virtuosismo vertiginoso) un alter ego musicale, appartiene alla galleria di personaggi amorali tipici della produzione di Britten, da Peter Grimes ad Albert Herring, da Lucretia a Owen Wingrave, passando ovviamente dal piccolo Miles del Turn of the Screw, sorta di avo di Puck. L’essere amorale si affaccia sempre sull’abisso del “pericolo” proprio perché non conosce i codici della società, e trova nel bambino la realizzazione migliore di quell’aspetto dell’essere infantile che Freud stesso definiva “perverso e polimorfo”.

Il quartetto degli amanti fuggiti nel bosco parla invece un linguaggio più umano, terreno, fatto di una pulsione e di una instabilità che privilegia l’inquietudine dell’affermazione del desiderio rispetto alla liricità dell’abbandono amatorio (almeno fino al sublime risveglio del terzo atto). L’amore per il teatro musicale mozartiano di Britten traspare anche nella scelta dei ruoli vocali delle coppie: Lysander (tenore) e Hermia (mezzosoprano), Demetrius (baritono) ed Helena (soprano), speculari a Ferrando e Dorabella e Guglielmo e Fiordiligi del Così fan tutte. Come per Mozart, Britten sembra volerci indicare, sin dalla scelta dei registri vocali (rispetto alle accoppiate classiche di tenore e soprano, baritono e mezzosoprano), che queste coppie faranno un cammino difficile prima di trovare un equilibrio finale. D’impianto mozartiano è anche l’orchestra che accompagna gli affanni amorosi del quartetto di amanti, nella sua tavolozza di archi e legni con pochi interventi di altri strumenti.

Al vivace gruppo degli artigiani viene invece associato un codice espressivo quasi da working class britannica, che oscilla tra ammiccamento volgare e cameratismo goliardico, non senza un retrogusto dell’amato Falstaff verdiano (gli strumenti più usati sono gli ottoni, e in particolare il trombone, vero alter ego strumentale di Bottom). Tutto questo viene portato ad un grado di parossismo con la spassosa pantomima finale, nella quale Britten si diverte (e noi con lui) a creare tante parodie di stili musicali più o meno alti, dallo Sprechgesang “inutile” di Snout-Wall ai deliri di Flute-Thisby (dove si ammicca alla “Follia” della Lucia di Lammermoor, con tanto di cadenza con flauto), il tutto unito a certi gesti cabarettistici ereditati dalle collaborazioni con W. H. Auden negli anni Trenta. Ed è proprio la rocambolesca rappresentazione di Piramo e Tisbe a nascondere la vera estetica di Britten e del suo Festival di Aldeburgh (da lui creato e nel quale l’opera ebbe la prima assoluta nel 1960). Quando Teseo giustifica la scelta del gruppo di artigiani per la festa di corte, dicendo che la loro commedia “non può essere male, se è fatta con ingenuità e senso del dovere”, si potrebbe infatti osare un’interpretazione metateatrale, e vedere il gruppo di artigiani come metafora di quella società popolare del Suffolk che tanta parte aveva avuto nell’ispirazione di Britten e che fattivamente rendeva possibile il festival. Britten è quindi alter ego di Teseo e Oberon, in quanto sovrano della sua corte musicale, ma anche di Bottom, il tessitore (metafora del compositore e librettista!), esperto di trucchi teatrali.

Il vocabolario armonico, come sempre in Britten, ha una forte base tonale, ma al tempo stesso il materiale musicale è organizzato in modo quasi seriale, basando l’intera opera su una concatenazione di triadi senza una vera relazione tonale gerarchica, gesto peraltro già utilizzato nella scena finale di Billy Budd per suggellare il momento misterioso (e nascosto) del confronto tra Captain Vere e Billy. Ma A Midsummer Night’s Dream è anche la prima grande opera nella quale Britten usa pienamente la sua ricerca sul barocco e in particolare su Henry Purcell, compositore di cui aveva revisionato ed eseguito Dido and Aeneas (e in seguito The Fairy Queen, sorta di opera gemella del Midsummer). La scelta stessa di affidare un ruolo protagonistico ad un controtenore era, per il teatro d’opera di allora, assolutamente impensabile, e in effetti per anni la parte di Oberon fu affidata a mezzosoprani, tra i quali persino Elena Obraztsova nel debutto sovietico dell’opera (per la disperazione dei melomani e, credo, per fortuna di Britten, non esiste una registrazione).

Nell’interpretare quest’opera con artisti prevalentemente italiani, ho incoraggiato solisti e professori d’orchestra a far emergere la fibra espressiva della musica di Britten, che spesso viene erroneamente percepita come arida, esaltando il lato più lirico e spontaneo della partitura. Sotto questo aspetto, la registrazione diretta dal compositore stesso è illuminante, e, per ora, insuperata, facendo rientrare Britten, con Leonard Bernstein e Richard Strauss, nel ristretto gruppo di compositori grandi interpreti delle proprie opere. Seguendo in modo molto flessibile e, a volte, ignorando le sue stesse prescrizioni in partitura, l’opera diventa sotto la bacchetta di Britten un organismo vivo, che conosce mille indugi e inflessioni di rubato. Soprattutto, è chiaro come ogni singola scelta interpretativa rifletta un modo di concepire la musica come organismo vivo, flessibile nei colori e nell’espressione, estraneo alla freddezza analitica e arida dell’establishment musicale di allora; si pensi a quanto Britten debba scontare ancora oggi – con Poulenc, Korngold, Barber e ahimè molti altri - la condanna di certa avanguardia darmstadtiana che il tempo ha saputo, per fortuna, ridimensionare e storicizzare.

Invito quindi il pubblico a godere di questo Midsummer cercandovi non solo la magia legata alla vicenda rappresentata, ma anche una riflessione, degna davvero di Shakespeare, sul sogno e sull’altrove, in un pendolo perpetuo tra affaccio sull’abisso che è in noi e ironica giocosità nel constatare i propri limiti e le proprie ambizioni.

Britten stesso, sebbene persona di grande cultura e complessità, amava sdrammatizzare e semplificare anche le grandi questioni, rispondendo in modo semplice e lapidario a chi gli chiedesse quali fossero le differenze tra una sua opera e quella precedente: “le note sono sempre le stesse, cambia solo l’ordine”.


 

 

 
 
 

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