L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

Kristian Benedikt (preve di Otello)

Note di regia di Francesco Micheli

L’eredità di Verdi. Note di regia per Otello *

– Perché, Iago, sei così cattivo? E perché dobbiamo

essere così diversi da quel che ci crediamo?

– Figlio mio, noi siamo in un sogno dentro a un

sogno.

PIERPAOLO PASOLINI, Cosa sono le nuvole?

All’origine di Otello c’è l’odio. Dispiace quasi dirlo, ma il motore che muove una delle più famose vicende raccontate a teatro è solo lui, il feroce accanimento distruttivo di Jago verso Otello, maleficio reso ancor più ributtante dal velo di ipocrisia che ammanta il piano diabolico.

Da dove sgorga tutto questo fiele? Shakespeare soddisfa abbondantemente la nostra curiosità, e il perfido antagonista in diverse occasioni illustra le genealogie del proprio sentimento divorante, sebbene esse siano quasi tutte discordanti tra loro. Quella posta all’inizio del dramma (I.1), è forse la più accreditata: si scopre che Jago, alfiere di Otello, era in realtà devoto al capo; alta l’aspettativa di riconoscimento per i servigi prestati; profonda la delusione quando la nomina a capitano spetta a Cassio e non a lui. La devozione, intaccata dal germe dell’invidia, rapidamente marcisce e si tramuta in appetito omicida. Il teorema è compiuto, nulla da eccepire. Shakespeare, qui come altrove, allestisce un laboratorio che declina le dinamiche distruttive insite nei rapporti di potere; ottimo scenario per Verdi che, da Nabucco a Don Carlos, in maniera sempre più sofisticata, sembra non aver raccontato altro.

Eppure qualcosa non torna, non è del tutto convincente, a partire dall’Otello del bardo. Ci sono alcune anomalie che possono confutare, o quantomeno relativizzare l’analisi giudiziaria sul percorso delittuoso di Jago. Le affermazioni su cui fondiamo il nostro processo alle intenzioni sono tratte da una ‘tirata’ che ha come destinatario il povero Roderigo; ora, quel che è certo è che Jago è quasi sempre bugiardo con tale individuo miserabile e lo sfrutta senza pietà per i propri scopi: perché mai dovrebbe egli condividere con costui i propri più intimi segreti? In fondo, giustificare il proprio odio in relazione a un’ingiustizia subìta ‘sul luogo di lavoro’ può attenuare la colpa, o comunque darle un qualche senso logico. Se invece è vero che con Jago è stato dato un volto alla matrice più nera e mostruosa della natura umana, mi sembra che questa versione dei fatti non giunga al cuore profondo e radicale della parabola sul male.

Per conoscere il progetto reale del nostro imputato, dobbiamo prestare attenzione ai suoi soliloqui in Shakespeare, in cui Jago si concede di ‘vomitare’ il proprio pensiero puramente illogico e di farlo giungere a noi in tutta la sua verità.

Io odio il Moro. Perché? Una certa voce messa in giro dice che il mio capo sotto le mie lenzuola si sia fatto gli affari miei. Sarà vero? Non lo so, ma mi piace comportarmi come se fosse cosa certa.

Perciò la mia anima non avrà pace finché non avrò fatto pari e patta con lui: moglie per moglie. Una gelosia così violenta che nessun ragionamento riesca a curare.

Lo stesso malessere che rode a me le interiora come un veleno.

Jago odia Otello perché si mormora che il Moro abbia avuto una tresca con Emilia? Tralasciamo che la diceria ci suona assai improbabile, visto che il condottiero e la serva non condividono nulla, in tutto il dramma, che li veda minimamente legati da un rapporto che non sia puramente professionale. Ammettiamo pure che Iago sia cornuto: che logica ha una vendetta che ponga in equazione la coppia Otello-Desdemona, Jago-Emilia? Come Jago ha sofferto per il tradimento di Emilia – reale o immaginario che fosse – altrettanto Otello deve penare per il tradimento tutto di fantasia perpetrato da Desdemona contro lo sposo. Al di là di ogni considerazione etica, è innegabile un pensiero di ordine economico: tutto questo spreco di energie per un paio di corna? La tradizione parla chiaro: anche nel peggiore dei casi, per pagare il giusto fio della vendetta, l’omicidio passionale è l’estremo rimedio per un’onta inaccettabile. A ben vedere, Emilia, la traditrice, resterà unica sopravvissuta, potendo facilmente prevedere la penosa fine che attenderà Jago a chiusura del sipario.

Che senso ha tutto questo? Nessuno. Othello è probabilmente la tragedia shakespeariana in cui si mostra in piena luce la banalità del male, si dispiega la capacità umana di contaminazione e distruzione. Per carità, non si assiste a truculente stragi che insanguinano le piazze o i campi di battaglia; siamo in camera da letto, agone contemporaneo dove si perpetrano i più feroci e frequenti delitti.

Curioso che Verdi, uomo del Risorgimento, padre della patria, compositore che ha saputo cantare le battaglie, necessarie o assurde che fossero, capaci di coinvolgere intere popolazioni, ora si richiuda nello spazio claustrofobico di un letto coniugale. La vastità è una categoria che in questa vicenda si tocca solo nella discesa agl’inferi di Jago: il malessere gli ha divorato le interiora, lasciando un vuoto in cui alberga l’infelicità più cieca. Che Jago ne sia consapevole o no, si assiste a un passaggio di testimone: Verdi, artista che ha saputo dare voce ai sentimenti e alle aspirazioni del secolo diciannovesimo, si avvicina al secolo in cui tutti siamo nati anticipandone i temi cruciali. Il nemico non è fuori di noi; è un male oscuro, tutto interiore. È una grande eredità che possiamo godere ora, a duecento anni di distanza dalla nascita del compositore. Otello si presenta come condottiero senza macchia e senza paura all’inizio del dramma, un Manrico del Mediterraneo; il morbo dell’insicurezza lo punge e lo fa diventare un nevrotico, ossessionato da minacce e nemici inesistenti. La realtà immaginata diventa più concreta della realtà. L’eroe diventa un mostro. Otello, musulmano convertito in terra cristiana, moro tra i bianchi, capo di una nave in tempesta, rappresenta perfettamente il nostro status di disadattati ed esuli cronici. Il valore dell’uomo, in questa storia veneziana, terra di trionfo del Rinascimento italiano, sembra negato: non essendo in grado di credere in loro stessi, speranzosi o disperati, i personaggi volgono il capo al cielo o agli inferi. Il cielo tempestoso dell’inizio sembra condannarci allo smarrimento, al naufragio. Le radici sono tagliate, siamo isole galleggianti, privi di certezze e stabilità. Nel passaggio dal dramma shakespeariano al libretto di Boito, l’eliminazione del primo atto veneziano rende assoluto il senso di precarietà: Cipro, lembo di terra sospeso tra vertigine del cielo e abissi marittimi, efficacemente simboleggia la nostra condizione fluttuante.

È questa l’eredità che il Maestro ha lasciato per noi oggi? Cosa resta? Forse è poca cosa, eppure… Non cessa di stupefarci la capacità di Verdi nel saper gettare lo sguardo in avanti e, di opera in opera, anticipare cosa saremmo stati e di quali dolori e per quali passioni avremmo vissuto. Questo mi sembra un grande insegnamento: cercare di guardare alto, guardare lontano, cercare la luce delle stelle in mezzo alla tempesta ma, nel contempo, restare coi piedi ben piantati per terra, per quanto instabili. Di questi tempi, merce rara, preziosa.


Vuoi sostenere L'Ape musicale?

Basta il costo di un caffé!

con un bonifico sul nostro conto

o via PayPal

 



 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.