L’Ape musicale

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44° Festival della Valle d’Itria

Eclissi d’amore

Il Festival della Valle d’Itria fa ruotarela44ª edizione intorno alla monumentale figura di Gioachino Rossini, nel 150° anniversario della morte (1868/2018). Il “progetto Rossini” si innesta con evidenza sugli indirizzi culturali e artistici di un festival da quasi mezzo secolo fedelmente impegnato nella ricerca e nell’approfondimento dei diversi ambiti del Belcanto italiano.

Il cartellone 2018 intende dipanare il filo rosso che percorre quattro secoli di teatro musicale nel segno della tradizione belcantistica italiana, che Rodolfo Celletti faceva risalire al recitar cantando monteverdiano e che prolunga la fioritura dei propri rami fino a tutto il primo quarto del XIX secolo, per inoltrarsi poi su sentieri anche molto divergenti tra loro e dallo spirito delle origini del melodramma. Ambiti diversi e lontani hanno però continuato a testimoniare la straordinaria fecondità dell’invenzione originaria: quel matrimonio alchemico che nella lingua italiana trovò – e non smette di farlo – il crogiolo d’elezione. Il titolo (del resto particolarmente “barocco”) è“Eclissi d’amore”, ed esplora soggetti e affetti in cui il più idealizzato e luminoso dei sentimenti sperimenta il passaggio dai languori della più bella delle illusioni al freddo improvviso della disillusione, e precipita nel dramma della lacerazione e nelle vertigini più cupe e insondabili della psiche umana.

Il programma intende presentare una possibile ed efficace esemplificazione dei fasti di una fase (lunga un secolo e mezzo) particolarmente gloriosa per gli sviluppi dell’estetica belcantistica, approdando a Nicola Vaccaj (il suo capolavoro è del 1825), passando per il genio di Alessandro Scarlatti e del sommo Händel; per una singolare ma non casuale coincidenza datano entrambe 1718 – e sono quindi esattamente 300 anni da oggi – le due opere “barocche” presenti in cartellone, dove la seconda – il celeberrimo Rinaldo – è presentata in esclusiva assoluta, nella versione “contaminata” (e a tutt’oggi inedita) dalla tradizione napoletana, con il decisivo contributo di Leonardo Leo.

La terna è di per sé eloquente e parla di epoche, culture, stili e poetiche molto diversitra loro; le opere e i compositori qui richiamati recano però, ciascuno a suo modo e ricorrendo alle risorse che la storia ha via via loro concesso, il suggello di una stessa gloriosa – e riconoscibilissima – civiltà musicale.

Ogni volta che intelligenza e sensibilità di un interprete – non solo cantante, ma anche direttore e regista – sono in grado di infondere linfa vitale al rapporto tra parola e musica (atto puramente creativo, che pesca nell’intero repertorio tecnico, stilistico ed espressivo, risorse che solo una compiuta consapevolezza della cultura melodrammatica può mettere a disposizione) si alimenta lo stupefacente atanor del recitar cantando: si libera l’intero potenziale espressivo riposto nelle profondità del testo drammatico-musicale; il canto prende a fiorire sul respiro, nel modo più naturale e quasi infantile, come puro ri-generarsi di nuova vita, che si sprigiona autonomamente, slegata da qualunque vincolo materico e fisico con quella reale; non c’è più nulla di concreto, e tutto sembra sciogliersi, a partire dalla stessa legge di gravità. In quella dimensione nuova, limpida e smaterializzata, tutto – persino l’ineffabile, l’inverosimile o il puro astratto – diviene possibile e trova la sua espressione compiuta e la sua propria essenza: è questo il modo belcantistico di interpretare il teatro musicale.

Tutto ciò è particolarmente evidente nel canto richiesto dal repertorio cosiddetto "barocco", al quale il festival dedica ogni anno, e nelle ultime edizioni con impegno programmatico particolarmente evidente, una particolare attenzione.

Al popolarissimo soggetto shakespeariano dei due infelici amanti veronesiè riservata l’inaugurazione della 44ª edizione del Festival della Valle d’Itria, con uno spettacolo affidato a un team creativo di giovani e talentuosi artisti, che proprio a Martina Franca hanno potuto farsi conoscere e apprezzare negli ultimi anni.

Il trionfo che l’opera Giulietta e Romeo colse alla prima milanese del Teatro della Canobbiana, nel 1825, ha garantito a Nicola Vaccaj la fama di buon operista oltre che di maestro di canto, ben noto a tutti i cantanti per un metodo che serve ancor oggi come utilissima base per la formazione al belcanto. Il compositore marchigiano, però, nutriva serie ambizioni anche in campo teatrale; sebbene con scarsa fortuna, riuscì infatti a far rappresentare le sue opere nei maggiori teatri italiani. Si contano nove insuccessi contro un solo esito felicissimo, quello dell’opera scritta sullo stesso libretto che Felice Romani fornirà a Vincenzo Bellini per I Capuleti e i Montecchi, cinque anni più tardi (1830).

Giulietta e Romeogodette nel corso dell’Ottocento di una fortuna propria e di una indiretta: il grande mezzosoprano Maria Malibran decise di modificare il finale dei Capuleti e i Montecchi di Bellini, innestandovi proprio la scena finale di Romeo dell’opera di Vaccaj. La scelta divenne abitudine consolidata per molti decenni, al punto che l’editore Ricordi, in appendice alla partitura belliniana, riportava proprio il finale “alternativo” di Vaccaj. La Malibran fu applaudita interprete del ruolo di Romeo in alcune riprese dell’opera; fra queste particolarmente significative le rappresentazioni avvenute alla Scala nell’autunno 1835, per le quali il compositore modificò sensibilmente la partitura: cambiò infatti tutti i recitativi secchi in recitativi accompagnati e portò la struttura da due a tre atti, con alcune modifiche drammaturgiche sostanziali, non sempre efficaci.

Dell’opera di Vaccaj, che ha sofferto fatalmente il confronto con il capolavoro belliniano, si è registrato soltanto un recente recupero (a Jesi nel 1996). Nell’esecuzione di Martina Franca si torneranno ad ascoltare, per la prima volta in tempi moderni, i recitativi accompagnati al posto di quelli secchi, davvero obsoleti in un’opera di questa temperie drammatica.

Sesto Quatrini torna sul podio del festival dopo l’unanimemente ammirata direzione di Un giorno di regno dello scorso anno; dopo il felice esito della sua regia di Baccanali, il cartellone martinese torna a ospitare la giovane regista Cecilia Ligorio, che, dopo il battesimo di Martina Franca, ha inanellato una serie di prestigiose scritture internazionali. Con la scenografa Alessia Colosso, pure creatura artistica del Festival, e il costumista Giuseppe Palella, uno dei più fantasiosi creativi del costume teatrale italiano, Ligorio ha confezionato il progetto di uno spettacolo di vivida suggestione, che mira a fondere l’eleganza del decorativismo proprio dell’estetica teatrale italiana con una vivacità di affondo drammaturgico del tutto personale. Lo spettacolo è inserito nel protocollo d’intesa siglato con la Fondazione Teatri Piacenza.

Nel cast, costruito secondo una logica “cinematografica” per l’aderenza degli interpreti all’immaginario collettivo su un capolavoro universalmente conosciuto, si segnala il ritorno, nel ruolo di Giulietta, di Leonor Bonilla, indimenticata protagonista della Francesca da Rimini di Mercadante del 2016 e il debutto al Festival di Raffaella Lupinacci, nel ruolo en travesti di Romeo. Completano il cast il tenore Leonardo Cortellazzi, nel ruolo di Capellio, Christian Senn in quello del Frate Lorenzo.

Incoraggiati dal felice sviluppo dell’Accademia del Belcanto "Rodolfo Celletti" – che ormai da otto anni offre a giovani cantanti di tutto il mondo un percorso di alta formazione tecnico/artistica nell’ambito dei repertori d’elezione del festival, guadagnandosi una posizione di assoluto rilievo in ambito nazionale e internazionale – crediamo siano maturi i tempi per un sempre maggiore coinvolgimento dei giovani talenti che scelgono Martina Franca per coronare il proprio percorso formativo, specializzandosi nel belcanto sei/settecentesco e protoromantico. Il Festival mette ogni anno in cartellone una intera produzione operistica appositamente ideata e riservata ai giovani cantanti dell’Accademia; il successo del progetto incoraggia a proseguire in questa direzione: l’incontro dei nostri giovani talenti – che per diversi mesi approfondiscono lo studio del repertorio belcantistico, sia dal punto di vista tecnico vocale (e tecnico pianistico per i maestri collaboratori), sia da quello stilistico-interpretativo – con i grandi autori della storia dell’opera italiana, offre uno spazio unico e privilegiato di crescita artistica, anche dal punto di vista dell’espressione attoriale. Il progetto, infatti, prevede anche una lunga fase di formazione laboratoriale con i registi incaricati di portare in scena l’opera, che si sviluppa per alcuni mesi, prima di trovare compimento in uno dei palcoscenici del Festival.

L’edizione 2018 del Festival della Valle d’Itria conferma Opera in masseria quale elemento qualificante del cartellone annuale del Festival. Si tratta di una delle più fortunate iniziative delle ultime stagioni: dopo una fase di sperimentazione via via più strutturata, la produzione si arricchisce quest’anno di un approccio musicale di assoluto rigore filologico, e per la prima volta verrà eseguita con orchestra di strumenti originali, giovandosi della splendida cornice di Masseria Palesi (non soltanto di raro pregio architettonico, ma anche perfettamente funzionale dal punto di vista acustico, e immersa in un paesaggio rurale di impagabile fascino).

Per più di una ragione si considera la sezione del cartellone denominata Opera in masseria come la sede ideale per la riproposizione di splendide opere comiche della grande scuola pugliese napoletana. Con ferma determinazione, la programmazione pluriennale del Festival intende percorrere un itinerario di riscoperta organica del genere: dopo il Piccinni del 2017, per questa 44ª edizione si è pensato infatti di affidare ai giovani dell’Accademia del Belcanto un’opera comica di Alessandro Scarlatti, particolarmente celebre nella storia del teatro musicale: Il trionfo dell’onore.

Agli inizi del Settecento il pubblico napoletano iniziava a snobbare il Teatro San Bartolomeo, dove si rappresentava l’opera seria (i “drammi per musica” di Zeno, ad esempio) e accorreva invece numeroso al Teatro dei Fiorentini «ove si fa una vera porcheria, indegna d’esser vista, in lingua napoletana». La “porcheria” cui il conte Francesco Maria Zambeccari, nobile bolognese trapiantato a Napoli, fa riferimento è il nuovo genere di opera buffa per musica in dialetto napoletano. È comprensibile il disprezzo del blasonato censore per un tipo di teatro popolaresco, spesso di bassa lega, che non di rado si divertiva a mettere grossolanamente in caricatura proprio l’ambiente aulico di cui lo Zambeccari faceva parte. L’apprezzamento del pubblico aristocratico per il genere buffo è tuttavia attestato dal crescente successo che gli intermezzi tra un atto e l’altro del dramma per musica riscuotevano in quegli anni, e dalla presenza nell’opera seria di intere scene affidate a personaggi comici, generalmente servi dei protagonisti o, talvolta, maschere della commedia dell’arte. L’utilizzo della lingua italiana invece del dialetto e la compresenza di caratteri e di stili musicali diversi ma coerentemente inseriti nell’impianto drammaturgico portarono alla definizione della commedia per musica, di cui lo scarlattiano Trionfo dell’onore è il primo modello di grande valore storicamente riconosciuto.

L’opera fu accolta molto calorosamente dal pubblico (ebbe ben diciotto repliche nella stagione 1718-19), ma nonostante il successo iniziale, l’opera non venne più ripresa per oltre due secoli. Nella trascrizione di Dunn venne rappresentata a Londra nel 1938; in Italia la prima ripresa moderna risale al 1941, con la direzione di Antonio Guarnieri. Esiste una versione registrata con Carlo Maria Giulini, ma decisamente inattendibile dal punto di vista stilistico ed estetico.

Il Festival, nel rispetto della propria identità culturale, presenta un’edizione ragionata e revisionata sul manoscritto autografo, curata dal giovane clavicembalista Jacopo Raffaele, cui è affidata anche la concertazione e la direzione di un ensemble di strumenti originali, decisamente più congeniali ad un’opera del 1718.

Benché sia l’unica commedia per musica scritta da Scarlatti, il congegno drammatico, che ritrae l’ambiente borghese dell’epoca, è ben strutturato; oltre ai sei personaggi consueti (due coppie di amorosi e una coppia di comici) si aggiungono qui due personaggi di mezzo carattere (gli anziani Flaminio e Cornelia), che conferiscono all’azione un perfetto equilibrio. Esemplare è inoltre la definizione tipologico-musicale di alcuni caratteri, mutuati in gran parte dalle maschere della commedia dell’arte. Anche per questa considerazione, la messa in scena è affidata all’estro della compagnia teatrale Eco di fondo, guidata da Giacomo Ferraù, con Giulia Viana e Libero Stelluti, a cui si deve l’indimenticabile spettacolo monteverdiano Altri canti d’Amor, che ha destato unanime ammirazione nell’edizione 2017 del Festival.

Il progetto viene realizzato grazie a una coproduzione con la Fondazione Paolo Grassi, con il contributo della Fondazione Puglia, in collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti di Bari. Le scene sono ideate da Stefano Zullo, i costumi da Sara Marcucci.

Nel cast, accanto ai giovani dell’Accademia del Belcanto, spiccano le presenze ospiti di Raffaele Pe – tra i più interessanti controtenori italiani oggi in attività – e del giovane tenore barese Francesco Castoro, che dopo aver avviato la sua carriera proprio all’Accademia “Rodolfo Celletti” e al Festival, ha avuto modo di mettersi in luce all’Accademia del Teatro alla Scala, e in diverse importanti produzioni.

Del Rinaldo, il capolavoro di Georg Friedrich Händel, si contano sei riprese in tutto durante la vita del compositore, con tre rappresentazioni a Londra, due ad Amburgo e una a Napoli. Le vicende del dramma che Händel mutua dal Tasso, illustrano pertanto bene, come scrive la studiosa Sabine Ehrmann-Herfort «la presenza dell’opera italiana in Europa all’inizio del XVIII secolo». Punto di partenza è la prima rappresentazione londinese del 1711:con essa si sono confrontate la versione amburghese del 1715 e quella napoletana del 1718. Quest’ultima è stata oggetto delle più morbose attenzioni dei musicologi di diverse generazioni, in quanto esempio più unico che raro di “sincretismo” tra il tipico dramma per musica del Sassone e l’opera di tradizione napoletana. La versione napoletana era stata considerata perduta, ma oggi, grazie al meticoloso e appassionato lavoro di ricostruzione del giovane studioso Giovanni Andrea Sechi, sarà possibile ascoltarla. Sechi ha provveduto al recupero di alcune fonti, e ha operato un’accurata ricostruzione sulle fonti, riuscendo nell’impresa di restituire alla luce la maggior parte dell’impianto drammaturgico-musicale di quella edizione.

Nel complesso la versione napoletana risulta essere più colorita, variegata e vivace delle due versioni precedenti e ben note.

Il cambiamento più incisivo, effettuato nella versione napoletana del 1718, consiste nell’inserimento di alcune scene comiche, con l’aggiunta dei due servitori Lesbina e Nesso. Era uso corrente a Napoli inserire tali scene nel dramma per musica come inserti separati: spesso con evidente e totale estraneità drammaturgica all’interno dell’opera.

Risulta particolarmente significativo che la versione del 1718 fu diretta e rielaborata musicalmente da Leonardo Leo. A Leo, che era uno dei maestri della commedia per musica napoletana, e al suo collaboratore Nicola Serino, l’impresario del Teatro S. Bartolomeo, si devono probabilmente i cambiamenti rispetto alla versione londinese, tra cui l’introduzione nel libretto della tipica coppia di buffi.

Il “trasferimento” del Rinaldo da Londra a Napoli si deve probabilmente al castrato napoletano Nicola Grimaldi, detto Nicolini, uno dei cantanti più celebri del tempo, che visse tra Londra, Venezia, Napoli e il resto d’Europa. Quando fece ritorno nella sua città natale nel 1717/1718, Nicolini — che aveva grandi qualità di cantante e ancora più grandi qualità d’attore – portò con sé la partitura del Rinaldo, che aveva contribuito in misura decisiva a far trionfare nelle due produzioni precedenti dell’opera, nei panni dell’eroe eponimo. Nicolini conosceva il Rinaldo di Händel come nessun altro cantante. Sicuramente prese parte a Napoli alla rielaborazione del libretto e all’allestimento scenico dell’opera. Del resto per lui si trattava di giocare in casa; adattò dunque la parte di Rinaldo alle proprie esigenze, in modo da conquistare quanto più possibile il pubblico. Prese così dalla parte originale cinque arie, oltre ad ‘appropriarsi’ di altre due arie molto note degli altri protagonisti, ovvero quella di Goffredo "Mio cor, che mi sai dir”e quella, famosissima, di Almirena,“Lascia, ch’io pianga”, quest’ultima ovviamente con un testo modificato.

La partitura ha quindi le caratteristiche proprie del pasticcio. Non c’è però, nel termine pasticcio, alcuna connotazione negativa, come opportunamente annota il regista Giorgio Sangati: «è la sensibilità contemporanea, figlia della filologia e del diritto d’autore, a vedere in questa pratica un atto lesivo nei confronti dell’operazione artistica».

Il personale percorso che il direttore musicale del festival Fabio Luisi sta proponendo nell’alveo della tradizione belcantistica di Martina Franca,orientato fino ad ora all’approfondimento delle decadi tra fine Settecento e inizio Ottocento,che preparano, accompagnano e chiariscono la grande fioritura rossiniana, viene arricchito da questo inedito Händel “mediterraneo”, che incontra la grande Scuola Napoletana. Dopo Medea in Corinto di Mayr,dopo Mercadante– autore che il Festival ha assai felicemente onorato nel 2016 con la trionfale prima mondiale assoluta della Francesca da Rimini –, dopo il Meyerbeer cosiddetto “italiano” del 2017e in attesa di avvicinare il neoclassicismo dell’epopea napoleonica con Spontini e Manfroce, Luisi si concede una parentesi assai significativa, affrontando un monumento händeliano riletto attraverso la lente dell’opera napoletana, e di un gigante come Leonardo Leo.

Il direttore musicale del festival sarà alla guida di un complesso specialistico di grande prestigio internazionale, quale La Scintilla, il gruppo di strumentisti del teatro dell’Opera di Zurigo specificatamente votati al repertorio barocco.

Improntato alla più tipica tradizione vocale latina il cast scelto per l’occasione: Teresa Iervolino vestirà i panni dell’eroe eponimo, mentre Carmela Remigio darà voce al magnifico personaggio di Armida. Francesca Ascioti, Loriana Castellanoe Francisco Ferdinando Rueda, tra altri giovani specialisti di opera barocca completano un cast decisamente prestigioso.

Si diceva che una delle caratteristiche più vistose – e gustose – della versione napoletana dell’opera è l’inserimento (per mano di Leo) di intermezzi comici che hanno come protagonisti due nuovi personaggi. La musica relativa è andata irrimediabilmente perduta, ma non il testo del libretto, perfettamente conservato; per salvaguardare il sapore autenticamente napoletano di questa versione, si è presa la decisione di affidare le due parti in questione a due straordinari attori provenienti dal Piccolo Teatro di Milano: Simone Tangolo e Valentina Cardinali, a cui verrà affidata tutta la sorprendente vis comica che il libretto riserva a Nesso e Lesbina.

Lo spettacolo è firmato da Giorgio Sangati, il cui elegante talento teatrale, maturato nell’alveo della tradizione del Piccolo Teatro di Milano, avrà modo di restituire una lettura drammaturgicamente limpida e una visione certamente non estetizzante del capolavoro händeliano. Le scene sono di Alberto Nonnato e i costumi di Gianluca Sbicca.

Illuminanti le parole con cui il regista padovano rileva la sostanza drammaturgica che distingue il Rinaldo “napoletano” dall’originale londinese di sette anni precedente: «la vera novità è l’inserimento drammaturgico del tema della gelosia, che accomuna tutti i personaggi e fa passare in secondo piano anche l’aspetto magico che giocava invece un ruolo decisivo nella versione londinese: è un Rinaldo d’intrigo che mette tutti i personaggi sullo stesso piano in preda a sentimenti umanissimi e, in un certo senso, meno eroici. È evidente che il gusto teatrale napoletano influenza questo spostamento, raccontando anche di un pubblico che probabilmente ha voglia di vedere sulla scena emozioni e relazioni più vicine al proprio stato, alla propria condizione: non più solo eroi distanti, ma personaggi capaci di entrare in relazione diretta con il mondo del pubblico. In un certo senso è un’anticipazione di quello che sarà il nucleo del successivo teatro borghese: la grande e sontuosa macchina barocca scricchiola e il meraviglioso comincia a lasciare spazio all’umano, al quotidiano».

Il cartellone del festival si arricchisce di una straordinaria serata di musica rossiniana, affidata a Fabio Luisi e ai giovani musicisti dell’Orchestra Accademia Teatro alla Scala, che eseguiranno pagine tra le più spettacolari e note dello sterminato catalogo del Pesarese, con la presenza del clarinettista Nicolai Pfeffer, impegnato nel virtuosistico brano Introduzione, tema e variazioni per clarinetto e orchestra. Dopo il celebre Gran concertato a quattordici voci da Il viaggio a Reims, completa la serata – dedicata alla memoria di Alberto Zedda con il titolo “Tra dolci e cari palpiti” – la cantata per soli, coro e orchestra La riconoscenza, con Carmela Remigio, Teresa Iervolino, Leonardo Cortellazzi e Christian Senn.

Il popolare Concerto per lo spirito nella Basilica di San Martino sarà diretto dal giovane Ferdinando Sulla, con un impaginato che accosta una nuova composizione di Giampaolo Testoni alla inedita Messa detta “di Milano”, di Rossini, ricostruita sulla base dell’autografo dallo stesso Sulla. Con i musicisti dell’Orchestra ICO della Magna Grecia e il Coro del Teatro Municipale di Piacenza.

L’atteso concerto sinfonico a Palazzo Ducale vedrà impegnata come di consueto l’Orchestra Internazionale d’Italia diretta da Michael Halasz, musicista di esperienza e lunghissima carriera internazionale, che torna a Martina Franca più di quaranta anni dopo la storica Norma del 1977, con Grace Bumbry e Lella Cuberli. Halasz dirigerà un programma classico, tra Mozart e Haydn, con la presenza del ventiseienne virtuoso del violino Yury Revich, già ospite nelle più prestigiose sale da concerto del mondo e “Giovane Artista dell’anno 2015 per l’International Classical Music Awards, impegnato nel celebre concerto di Paganini, “La campanella”.

Il ciclo Novecento e oltre, su cui il festival ha molto investito in termini progettuali negli ultimi otto anni, proporrà una serie di concerti i cui programmi si dipanano tra il genio di Rossini, e anche di alcuni suoi lavori di più raro ascolto, e la musica del Novecento.

Nella prima serata l’impaginato prevede la Cantata per contralto e pianoforte di Gioachino Rossini, Giovanna d’Arcoe le Danze sinfoniche da West Side Storyper due pianoforti e percussioni. Il secondo programma mette in fila di Gioachino Rossini leSoirées musicalesper voce e pianoforte, i Three Songs from William Shakespearedi Igor Stravinskij e i Dieci pezzi daGiulietta e Romeoop. 75di Sergej Prokof’ev.

Nel corso di serata rossiniana di particolare interesse belcantistico (inteso in chiave anche strumentale), il violinista YuryRevich, il clarinettista Nicolai Pfeffer, il pianista Simone Di Crescenzo, insieme al soprano Maria Aleida, si esibiranno in una serie di pagine di alto e raffinato virtuosismo, per un omaggio a Michele Pertusi,che riceverà nell’occasione il tradizionale Premio del Belcanto intitolato allo storico direttore artistico del festival, Rodolfo Celletti.

Per Festival Junior,la popolare serata dedicata ai giovani interpreti, istruiti nel corso dei mesi invernali, è stato scelto un adattamento del capolavoro comico di Rossini, firmato dal giovane attore e regista Marco Bellocchio: C’era una volta... Cenerentola! affidato alle cure musicali di Angela Lacarbonara, preparatrice del coro di voci bianche.

Tra i complessi impegnati nella 44ªedizione del Festival, si saluta il debutto a Martina Franca de La Scintilla di Zurigo e dell’Orchestra Accademia Teatro alla Scala, e si registra il ritorno dell’orchestra della ICO di Taranto e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, diretto da Corrado Casati.

Una menzione a parte merita il giovane Ensemble barocco del Festival della Valle d’Itria, che ha il pregio di mettere insieme alcuni tra i migliori talenti strumentali del territorio con esperti maestri di prestigio internazionale. La costituzione di questo gruppo, che nasce nel 2017 con lo specifico scopo di assicurare alle esecuzioni del festival la più corretta prassi esecutiva per le opere seicentesche e del primo Settecento, è certamente uno dei risultati più evidenti e preziosi della costante e tenace crescita della qualità del prodotto culturale e artistico del Festival.

Si segnala poi l’assoluta innovatività del progetto di libero adattamento del Barbiere di Siviglia,Figaro su, Figaro giù..! ideato nell’ambito delle celebrazioni rossiniane, coprodotto con la Fondazione "La Notte della Taranta" di Melpignano. La produzione, destinata al più vasto pubblico, ha un’impronta volutamente "pop", e per questo motivo si fonda su una riscrittura drammaturgico-musicale del capolavoro rossiniano, affidato al talento e alla popolarità di un musicista e personaggio televisivo come Elio e di un esperto uomo di teatro e divulgatore come Francesco Micheli. Un complesso di strumenti popolari e anche etnici, tipici della tradizione musicale della “pizzica”, affiancherà un ensemble classico, tutti sotto la guida esperta di un direttore come Giuseppe Grazioli.

Si tratta di un progetto assolutamente senza precedenti, che parte dall’incontro e dal dialogo di un prestigioso festival di musica “colta” e di ricerca – e dalla sua solida tradizione culturale e identità artistica - con un grande festival di musica popolare – che può contare sulla visibilità e sulle dimensioni dei grandi numeri.

Il cast annovera un gruppo di giovani di grande personalità artistica e musicale, a partire dalla Rosina di Maria Aleida (che torna al Festival dopo il suo debutto in Aureliano in Palmira del 2011), con il Bartolo di Marco Filippo Romano (irresistibile buffo nella Margherita d’Anjou dello scorso anno) e il Conte di David Ferri Durà, ospite abituale del Festival. Basilio sarà il giovane Peter Kellner, basso di grande avvenire, già prenotato dai più prestigiosi palcoscenici europei, mentre come Figaro si farà ammirare il brillante baritono italiano Davide Terenzi.

Si tratta di un progetto completamente inedito, che si prefigge lo scopo di intercettare e avvicinare all’opera pubblici potenzialmente distanti, oltre che aumentare considerevolmente – anche grazie alla collaborazione con la Festa della Taranta che ospiterà a Otranto una replica dello spettacolo – il bacino di fruizione di un’operazione culturale di natura trasversale. Il progetto si prefigge altresì lo scopo di approfondire il rapporto tra linguaggio e poetica musicale rossiniani e l’antica tradizione musicale dei fenomeni di tarantismo, in cui l’elemento ancestrale dionisiaco – tanto evidente nello scatenamento ritmico perfettamente organizzato di Rossini – gioca certamente un ruolo facilmente riconoscibile. Con l’occasione di questo spettacolo verrà promossa una tavola rotonda di riflessione critica, con la partecipazione di etnomusicologi, antropologi, musicologi e studiosi del costume popolare.

Per quanto riguarda lo spettacolo, la regia è affidata all’estro di Gianmaria Aliverta, mentre per le scenografie, si prevede una collaborazione con la Fondazione "Carnevale di Putignano", con il progetto scenico di Benito Leonori e i costumi di Sara Marcucci e Francesco Bondì.

Di sicuro interesse, infine, è il programma del concerto della ICO “Magna Grecia” di Taranto, affidato alla direzione del giovane Orazio Sciortino, singolare figura di multiforme ed eclettico musicista: compositore, pianista (e in questa veste si esibirà in un raffinato recital notturno), direttore e divulgatore siciliano, la cui biografia già spicca per collaborazioni, incisioni e commissioni di grande rilevanza. Oltre alla sua divertente Gattomachia, che ha debuttato con grande successo nella corrente stagione concertistica del Teatro alla Scala, e che vedrà impegnato come violino concertante il giovanissimo virtuoso napoletano Riccardo Zamuner, il singolare impaginato allinea tra l’altro il Duetto dei gatti di Rossini, trascritto per orchestra d’archi e pagine da La gatta Cenerentola di De Simone, affidati all’estro e alla personalità artistica di Domenico Colaianni.

La celebrata opera di De Simone, del 1976, si ispira alla fiaba omonima contenuta ne Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, ed è il felicissimo frutto di un lavoro di ricerca operato dal compositore, studioso e regista napoletano e dal suo gruppo, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, nelle tradizioni orali e musicali del Sud Italia.Da un punto di vista musicale si tratta di un sapiente impasto di musica popolare (villanelle, moresche, tammurriate) e musica colta, e ben si innesta in un cartellone in cui spiccano il progetto di un capolavoro di Rossini rivisitato attraverso un percorso di contaminazione con la più nota tradizione di musica popolare del Salento, e un capolavoro händeliano presentato in una versione, che si pensava perduta, che è ancora frutto di un processo di sincretismo culturale di particolare interesse storico: quello che testimonia l’incontro – episodico ma affatto emblematico – tra dramma per musica di produzione inglese (anzi, tra la prima opera su libretto italiano specificamente composta per la capitale inglese) e modello operistico tipico della scuola napoletana, vale a dire l’opera seria con inserto di intermezzi comici. Il clamoroso innesto restituisce un capolavoro sorprendentemente “umanizzato” rispetto all’originale.

A ben vedere, quello della contaminazione, e della straordinaria e imprevedibile fecondità dei suoi frutti, è un altro appassionante fil rouge del cartellone della quarantaquattresima edizione del Festival della Valle d’Itria.

Alberto Triola

 

 


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