L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Lorenzo Maria Mucci

Note di regia

POPOLI E INDIVIDUI NEL FLUSSO DELLA STORIA

Non so se l’Esodo fu in effetti la prima rivoluzione, come pensano molti commentatori. Il Libro dell’Esodo però (assieme al Libro dei Numeri) con- tiene certamente la prima descrizione della politi ca rivoluzionaria.

Michael Walzer, Esodo e rivoluzione

Bisogna ammettere che la coralità di Mosè in Egitto è veramente qualcosa di rivoluzionario per l’opera italiana di quel tempo (…).

<palign="LEFT">Paolo Isotta, I diamanti della corona

Nella struttura drammaturgica e musicale del Mosè in Egitto, per certi versi di incredibile modernità (ad esempio nell’uso di ellissi narrative che la avvicina alle odierne sceneggiature cinematografiche), il tema politico è messo in rilievo dalla forte presenza del coro.

La coralità, intesa come manifestazione del sentimento collettivo, determina la struttura drammaturgica dell’opera, segnandone il ritmo e fornendo la cornice alla vicenda privata della relazione tra Osiride e Elcia.

Coralità che si fa argomento politico nella contrapposizione tra due popoli, l’uno oppressore, l’altro schiavo e che aspira alla liber tà; l’uno che spinge all’azione Faraone, l’altro che attende con ferma fiducia un segnale da Mosè.

Penso ad esempio al coro d’apertura “Ah! chi ne aita?”: gli Egiziani accusano Faraone di essere causa delle proprie disgrazie e spingono affinché lo stesso Faraone trovi la soluzione. Pressione che trova soluzione musicale nell’arrestarsi subitaneo del coro e nella significativa pausa ( “dopo qualche pausa”) che precede il “Venga Mosè” di Faraone.

Penso anche al coro degli Ebrei nel finale del primo atto (“All’etra, al ciel”) che, insieme ad Aronne e Amenofi, canta le lodi di un dio patriota, che “I lacci fe cader / Di rio servaggio” e di cui tutti potranno ammirare giustizia e pietà. E sembra veramente lo stesso Dio manzoniano che “nell’onda vermiglia / chiuse il rio che inseguiva Israele” ( Marzo 1821).

É una coralità in qualche modo laica nonostante la severità ora toriale che trova poi forma agita nella contrapposizione tra i due leader. Nel pensiero politico occidentale il racconto biblico dell’Esodo è ancora considerato il paradigma della rivoluzione, intesa come percorso – anche doloroso – per arrivare alla terra promessa del cambiamento.

Da una parte dunque Faraone, in balia di spinte diverse e fin troppo riflessivo, che argomenta e cerca soluzioni per “ragion di Stato”. Dall’altra un Mosè integralista che argomenta solo attraverso le minacce. Il rapporto oppressore/schiavo che lega i due popoli è di natura economico-politica e non culturale. Gli Egiziani infatti non hanno mai obbligato gli ebrei a convertirsi ai loro Dèi (v. la lunga battuta di Osiride nella quinta scena del primo atto) e Faraone si affanna a spiegare a Mosè le ragioni politiche contrarie alla partenza degli Ebrei per il mantenimento della stabilità ai con fini del regno (atto II, scena 4).

Nonostante l’argomento biblico, il tema religioso appare piutto sto sfumato. Quello di Mosè è un Dio che vuole la libertà per il suo popolo inteso come comunità che crede in lui e quindi è un Dio pronto ad uccidere ma anche ad accogliere: al termine del quintet to “Celeste man placata!” Aronne e Mosè non esitano un solo secondo a fare proselitismo.

É un Dio che, pur presente fin dai primi tre accordi all’unisono dell’introduzione, si manifesta solo attraverso segni “naturali”. Le colpe degli oppressori sono punite attraverso un movimento della natura ‘fuori ritmo’: tenebre che permangono sostituendosi alla luce; grandine e fulmini che cadono a ciel sereno; mare che si riti ra e poi ritorna. Il tema religioso trascolora così nella sacralità della Natura e nel sovvertimento dei ritmi naturali.

C’è poi il tema tutto privato della relazione tra Osiride e Elcia, di cui alcuni aspetti rischiano di rimanere sepolti sotto l’ingombrante e generico tema amoroso. Osiride, pur in una posizione di grande responsabilità politica, si muove cercando con ogni mezzo di assoggettare il bene comune al suo interesse privato e appare a tratti invasato al pari di Mosè. Lo scambio dopo il duetto del primo atto ci mostra un Osiride che non esita a usare la forza per trattenere Elcia che invece mette il dovere al di sopra dei suoi desideri:

Os. Chi sarà quell’uomo, quel Dio, Che da me ti può involar? (trattenendola con impeto)

El. Deh! Mi lascia…

Os. Invan lo speri…

El. Ah paventa!

E d’altronde, dopo aver tentato con complotti e corruzione di ottenere ciò che vuole, morirà non proprio da eroe nel disperato tentativo di rimuovere con la violenza l’ostacolo principale al suo desiderio.

La presenza del coro ha il suo contraltare nella presenza dei recitativi accompagnati. Da una parte la storia di due popoli, dal l’altra le singole storie individuali. Dipanando scenicamente i reci tativi è possibile mettere in luce i desideri, le aspettative, i timori, le convinzioni, i dubbi dei personaggi. L’assenza di azione è in realtà solo apparente perché la parola si fa azione nel costante sforzo di modificare l’altro e permettendo quindi l’emersione delle peculiarità dei singoli. Faraone è un sovrano attento ai suoi sudditi e dunque sempre alla ricerca di una soluzione politica che lo tenga “a galla” (è proprio il caso di dire) rispetto agli eventi, che siano catastrofi o tumulti, ma è anche un padre orgoglioso del proprio rampollo. Osiride non ha alcun rispetto per il bene comune e men che meno per il suo ruolo che anzi utilizza solo per il suo tornaconto personale. Amaltea è una sorta di mater misericordiosa nei confronti del genere umano ed è anche l’unica capace di leggere nell’animo dei suoi congiunti. Mosè è un uomo di fede, granitico nella sua convinzione che gli deriva da un rapporto privilegiato con la divinità e che ha comunque un costo in termini di energia vitale. Poi c’è Elcia che non si fa illusioni e che è disposta a sacrificare i propri sentimenti e desideri per qualcosa di più grande. Ma anche Aronne, Amenofi e finanche Mambre hanno spazi, seppur piccoli, per dimostrare tratti del proprio carattere.

Popoli e individui immersi nel flusso della storia che a volte

accelera, a volte rallenta in un vortice ma sempre prosegue implacabile la propria strada incurante di chi accompagna o di chi travol ge. Come un fiume lascia detriti incagliati intorno ai piloni dei ponti, così il flusso della storia lascia scorie nelle storie e nell’animo degli uomini.

Su questi elementi fondamentale è stato il contributo di Josè Yaque, artista cubano, nelle cui opere è possibile rintracciare l’attenzione agli eventi naturali che spazzano via l’esistente e favori scono la creazione di nuovi equilibri, in uno scorrere continuo e costante della storia dei popoli. Nella ricerca dell’artista è forte l’interesse per i fenomeni che riguardano la collettività, la visione del fluire della vita dove il singolo si perde nella molteplicità, nella pluralità di fatti e passioni.

Per materiali utilizzati e poetica il segno visivo di Josè Yaque è talvolta intimo e domestico, talvolta monumentale e potente, al contempo attuale e fuori dal tempo, legandosi dunque strettamente con l’intenzione del disegno registico.


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