L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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ILARIA MARIOTTI

Storica dell’arte e curatrice, è docente di Storia dell’Arte contemporanea presso l’Accademia di Belle

Arti di Brera e direttrice del Centro Attività Espressive Villa Pacchiani a Santa Croce sull’Arno.

JOSÉ YAQUE: LA STORIA E IL DIVENIRE

La forza delle immagini create da Josè Yaque sta, a mio parere, in due elementi che contraddistinguono la sua ricerca e la sua produzione: sta, parimenti, nella loro essenza che senti provenire da lontano, da quel mondo cubano dove l’uomo e la natura devono convivere fronteggiandosi, dialogando e subendo l’uno la presenza dell’altro. Dall’altra parte la forza viene dall’energia del gesto di Yaque che plasma, dirotta, lega e unisce, scava e porta alla luce, in un’energia unica che, da rivoli differenti, si riversa poi nel prodotto finale.

L’uomo vive nel mondo in diretto contatto con le forze della Natura: benigna e materna, ma che può sfoderare il suo animo più cupo e distruttivo. Di fronte a lei l’uomo è minuscolo, le sue storie personali possono essere spazzate via in un attimo, nelle pieghe delle ere geologiche – il tempo della natura – la vita dell’uomo è un respiro.

La vita è energia e trasformazione: tutto è connesso in uno sguardo che non si sofferma sugli uomini ma comprende l’ambiente, non si sofferma sulle storie ma ha a che fare con la Storia. Qui il tempo e lo spazio vengono calcolati con parametri diversi che, in ordine a ampiezza, sono quelli in cui il destino del singolo sbiadisce e riprende spessore nel confluire nel percorso dell’umanità intera e in un comune destino, pone in primo piano la consapevolezza di essere parte di un universo, misterioso, dominato da imprevedibilità e bizzarria, dove gli sconvolgimenti della Natura generano caos e, nel loro placarsi, riorganizzano il mondo in inedite forme di armonia e bellezza. Questi eventi, che sono la punteggiatura del fiume della Storia, garantiscono il cambiamento, il Devenir che è condizione essenziale per la prosecuzione dell’umanità. Materia dell’artista sono i gorghi della storia, che con il loro caos e irrazionalità diventano materiale poetico: l’opera è un’immagine metaforica e simbolica, un osservatorio temporaneo dal quale, nella sua temporanea risoluzione, è possibile fermarsi per contemplare e analizzare il flusso del cambiamento e del Divenire.

Realizzate per movimentazione di materiali, accumuli e sedimentazioni le opere di Yaque, dalle installazioni alle pitture, fatte con le mani e condizionate dalle plastiche, conservano una sorta di energia originaria che deriva dalla consapevolezza di trarre forza dalla terra su cui si poggiano i piedi e dagli alberi, dal modo in cui essi si protendono verso il cielo, e dalle acque che la attraversano o sui cui la terra si affaccia. Non solo lo sguardo dello spettatore è chiamato in causa: lo spazio dell’installazione diventa lo spazio dell’azione e dell’interazione dell’opera con lo spettatore i cui sensi, tutti, sono coinvolti nel processo di avvicinamento e di relazione con l’opera. Le recenti impressionanti installazioni di Tumba abierta (opera in progress dal 2009 e che Yaque ha realizzato in formato monumentale per il Padiglione Cuba alla Biennale di Venezia del 2017 e per la sezione unlimited di Art Basel nel giugno 2018) confermano la necessità dell’artista di lavorare in chiave installativa e di inglobare lo spazio. Opere che affrontano il tema del mistero dell’universo in cui l’uomo vive aldilà della necessità di comprenderlo analiticamente e scientificamente mettendo al centro la bellezza della trasformazione.

Il rapporto fisico con i materiali, necessario per l’artista e per lo spettatore, affonda le sue radici in un eterogeneo sistema di riferimento culturale di Yaque in cui trovano posto e dialogano letteratura e filosofie, miti e leggende della cultura cubana (raccolti, ad esempio, dall’etnologo Samuel Feijòo) così come il pensiero di Arthur Schopenhauer e di Michel Foucault, e insieme costituiscono un immaginario complesso dove l’esperienza empirica si trasfigura in misticismo e viceversa.

Non è la prima volta che Yaque affonda le mani negli scarti della nostra società organizzandoli, poi, in immagini ricche di potenza: da Cavidad (2010), una cappella incorniciata da un arco a sesto acuto riempita da una monumentale quantità di oggetti di scarto che la trasformano in una sorta di grande ventre, evocando gli aspetti organici e anatomici dell’architettura destinata, come il corpo, a deperire.

Nel 2014 Yaque tratta i supporti espositivi dei dipinti presenti nel Museo Nacional de Bellas Artes, (La Habana, Cuba) come piloni di ponti attorno ai quali si sono accumulati detriti (recuperati dalle rive del fiume Almendares), trasportati da un fiume in piena. Le opere e i loro supporti arrestano temporaneamente il flusso del divenire del quale anche loro fanno parte. Il fiume, i detriti sulle sue sponde quale metafora del mondo dei fenomeni osservabili dall’uomo quali frammenti del reale è presente fin dal 2008 nella ricerca di Yaque (Horizontes de succesos, Galería de la facultad de Artes Plásticas, La Habana).

È del 2015 Interior con Huracán (2015), un vortice che sembrava divorare con forza centripeta quanto a lui si avvicinava, pronto a inglobare cose e persone.

Suelo Autóctono è il titolo di una serie di opere (2012 - 2017, realizzato all’Avana, Varsavia, Detroit e Milano, sempre diverso per via di cosa, nei luoghi diversi, viene utilizzato e poi buttato o inghiottito dalla terra e poi riportato alla luce) realizzate come carotaggi monumentali in un nostro ipotetico passato, dove oggetti sedimentati e compressi testimoni di attività umane si alternano a strati di terra che costantemente pare rigenerarli.

A Santa Croce sull’Arno, per la mostra Alluvione d’Arno (2017) Yaque ha realizzato due diverse installazioni con i rifiuti: in Devenir brandelli, cordami, zaini, cinture, borse di plastica si annodavano a qualunque elemento verticale fosse nelle vicinanze dell’entrata di Villa Pacchiani, luogo dove si è tenuta la mostra. Depositati lì, pareva, in seguito all’esondazione del fiume Arno che corre proprio dietro l’argine che fa da spalla alla Villa. Bellezza e poesia generate da una furia distruttiva appena passata.

Alluvione d’Arno era la seconda installazione realizzata all’interno della Villa costituita da un paesaggio fatto di scarpe dismesse che occupava una sala intera, la più grande e decorata: un’immagine che portava con sé l’eco dei passi dei tanti che hanno percorso le strade del paese e le strade del mondo migrando in questo luogo da tanti luoghi diversi, in un fiume di persone del quale anche noi facciamo parte, perennemente minacciati dall’alluvione della storia (nel nostro essere collettività), da quello della vita (nel nostro essere individui). Sempre nel 2017 per El Río y la fabricas – nell’ambito della mostra CUBA MI AMOR, presso Les Moulins, la ex cartiera di Boissy-le-Châtel oggi una delle sedi di Galleria Continua – Yaque ha usato i materiali elettrici appartenenti al sito dismesso costruendo una sorta di fiume perenne che si snoda nello spazio.

Nel 1912 Pablo Picasso compì un gesto rivoluzionario attaccando un pezzo di tela cerata con un motivo di paglia stampata su un dipinto (Nature morte à la chaise cannée, oggi al Museo Picasso, Parigi): il reale irrompe nella pratica artistica, in una sequenza di stratificazioni semantiche e di metafore (la paglia non è vera ma stampata sulla tela cerata). Da lì, così come dai collage di Braque e ancora di Picasso il reale entra nel dominio dell’arte, si compie quel processo che porterà poi, andando ben più lontano e passando da Boccioni e dai futuristi, da Marcel Duchamp, Kurt Schwitters, Dada, alla pratica di invadere lo spazio e renderlo percorribile dal corpo dello spettatore e non solo contemplabile e indagabile attraverso la vista.

I materiali, i più vari, che entrano nel processo di creazione dell’opera di Yaque non rappresentano, sono. Essi sono evidenza di loro stessi e reclamano di essere percorsi non solo con lo sguardo ma in qualche misura agiti. Se non nell’azione immediata, essi rimandano all’idea di poter essere afferrati, toccati, in una dimensione esperienziale che non riguarda tanto il presente quanto una loro vita passata. La rigenerazione degli oggetti e della materia passa attraverso la memoria di quanto sono stati e hanno rappresentato per l’uomo, per le società che li hanno prodotti e utilizzati. La loro rinascita riguarda il modo in cui il corpo dell’uomo ne ha fatto esperienza perché è attraverso il corpo che l’uomo fa esperienza del mondo. Questa dimensione è, all’interno di un movimento in continuo fluire e divenire, un cortocircuito: le dinamiche di movimento si fanno più complesse: gli oggetti che furono, nell’opera d’arte cambiano di segno attraverso uno scarto che li ribalta su loro stessi, pronti a reimmettersi, anch’essi, nel fiume della storia.


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