L’Ape musicale

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L’opera

Quartett, commissionata dal Teatro alla Scala e qui andata in scena nel 2011, è l‘ottavo lavoro di Luca Francesconi per il teatro musicale. Il libretto in lingua inglese dello stesso compositore è tratto dall’omonima pièce di Heiner Müller andata in scena per la prima volta allo Schauspielhaus di Bochum nel 1982.

Il testo di Müller si inserisce in una lunga serie di adattamenti del capolavoro libertino di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Lacos Les liaisons dangereuses (1782), romanzo epistolare reso universalmente celebre anche da numerose trasposizioni cinematografiche: Les liaisons dangereuses 1960 di Roger Vadim con Jeanne Moreau, Gérard Philipe e Boris Vian è del 1959; del 1988 è Dangerous Liasons di Stephen Frears con Glenn Close, John Malkovich, Michelle Pfeiffer e Uma Thurman in sontuosi costumi, seguito l’anno seguente da Valmont di Miloš Forman con Colin Firth e Annette Bening. Una versione contemporanea è invece Cruel Intentions di Roger Kumble del 1999 con Ryan Phillippe e Reese Witherspoon.

La riscrittura di Müller per il teatro si distacca tuttavia dalle trasposizioni letterali facendo riferimento, più che al testo in sé, al saggio che Heinrich Mann aveva premesso alla sua traduzione. Il testo è radicalmente trasformato per soli due attori che interpretano tutti i personaggi in un gioco di specchi che sviluppa il cinismo e la spersonalizzazione già presenti in Laclos nella direzione di una critica affilata dello smarrimento di identità nel mondo di oggi.

Appassionato lettore di Müller, Francesconi aveva già progettato di mettere in musica Filottete e Mauser. Di fronte a Quartett Francesconi ipotizza in un primo momento l’ulteriore riduzione a un solo personaggio, il cui monologo sarebbe stato echeggiato da supporti tecnologici, per poi scegliere di conservare la dimensione del dialogo adottata da Müller. Il testo viene trasposto in inglese, lingua franca del nostro tempo ma anche strumento di un processo di purificazione dalle scorie emotive, come già sperimentato da Beckett. Vengono conservati, rispetto a Laclos, quattro personaggi (Valmont, la Marquise de Merteuil, Cécile de Volanges e Madame de Tourvel) ma in scena ci sono solo un baritono e un mezzosoprano che interpretano sia i carnefici sia le loro vittime. Due sono anche le orchestre: la prima, assai corposa e densa di ottoni e percussioni, e unita al coro, è invisibile allo spettatore e viene definita da Francesconi come “Out”. Collocata in sala prove, è udibile in sala mediante amplificazione. La seconda, in buca e denominata “In”, è relativamente ridotta: un sestetto d’archi, legni a parti reali tranne due flauti, arpa, pianoforte, celesta, percussioni e due tastiere elettroniche. La separazione spaziale delle fonti sonore, versione moderna e tecnologica di dislocamenti antichi (basti pensare al Requiem di Berlioz) ha funzione drammaturgica: alla dimensione asfittica e claustrofobicamente disperata della scena pensata da Müller, Francesconi contrappone l’”Out”, voce di una natura, di un altrove, di un Es che è spazio per una possibile speranza. Conclude Francesconi: “La guerra di manipolazione che deflagra nella società invade la sfera dei sentimenti più intimi: l’amore, la fiducia, la comprensione. (…) Ma non bisogna pensare che sia un pensiero negativo, sarebbe uno sbaglio. È un pensiero critico, all’erta. (…) L’individuo, nella sua goffa solitudine e fragilità, può resistere alla manipolazione e all’ideologia gettando il suo corpo, il suo cuore pulsante sulla scena. È l’unica arma che ha”.


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