L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

NOTE DEL DIRETTORE

Sergio Alapont

L’HEURE ESPAGNOLE

Dopo oltre cento anni dalla sua nascita, Maurice Ravel è ancora considerato uno dei grandi innovatori dell'espressione musicale. Ravel scrive L'heure espagnole in omaggio al padre, che lo aveva sempre sostenuto nella sua carriera musicale. Se il compositore aveva già scritto diverse opere di successo, nessuna di esse era un'opera lirica, un genere particolarmente amato dal genitore. Ravel ha definito il suo lavoro un'opera-bouffe. Per comporre questa partitura utilizza elementi spagnoli come la jota, l'habanera (anche se questa è originariamente una danza cubana), annoverandola fra una delle numerose composizioni in cui Ravel ha introdotto linguaggi musicali della tradizione spagnola. L'heure espagnole, commedia musicale piena di fantasia e malizia, un successo da maestro. Un'opera piena di brillanti esperimenti musicali e sonori. La partitura non è un'opera scritta secondo i canoni consueti con arie, recitativi e scene d'insieme a più voci, se si esclude il quintetto finale, pagina di magistrale eleganza compositiva. Lo stesso Ravel, che aveva sperimentato un genere di conversazione in musica con la versione cameristica delle "Histoires naturelles" di Jules Renards (1906), scrisse: «La lingua francese, come ogni altra, possiede i suoi accenti e le sue inflessioni musicali, e non vedo perché non ci si debba servire di queste risorse per arrivare ad una corretta prosodia». Dal risultato estetico raggiunto da Ravel in L'heure espagnole, si sprigiona un sottile gioco di timbri e di effetti strumentali che appartengono alla già nota genialità del compositore nel dominio dell'orchestrazione.

GIANNI SCHICCHI

Giacomo Puccini, verso la fine della sua vita, scrisse a un suo amico dicendogli: «Dio Onnipotente mi toccò con il mignolo e mi disse: "Scrivi per il teatro. Ricordatene, solo per il teatro". E io ho obbedito a quel supremo comandamento». Gianni Schicchi, nonostante la sua brevità, è giustamente considerata un'opera maestra. Un ritorno all'opera buffa in tutto il significato classico del termine. In Gianni Schicchi il macabro si converte in comico con una teatralità perfetta. Di Puccini si è sempre detto che sapeva risvegliare, suscitare le grandi emozioni nel pubblico, ma anche nella comicità non ha deluso le aspettative, proprio come ha fatto lo stesso Giuseppe Verdi alla fine della sua carriera, riprendendo la tradizione dell'opera buffa italiana nei suoi momenti di massimo splendore. Costantemente interessato nelle composizioni del suo tempo, Puccini analizza i lavori di Claude Debussy, Richard Strauss, Arnold Schönberg e Igor Stravinskj. E Il Trittico nasce proprio da questi suoi studi, tre opere di un solo atto, ciascuna in un uno stile assolutamente individuale: Il Tabarro, melodrammatica; Suor Angelica, sentimentale; Gianni Schicchi, comica. La concezione pucciniana della melodia diatonica fonda le sue radici nella tradizione operistica del XlX secolo, ma il suo innovativo stile armonico e orchestrale indica che vi è anche una profonda coscienza degli sviluppi contemporanei. Sebbene lasci un ruolo estremamente importante alla parte orchestrale, preserva la tradizionale predominanza della parte vocale, affidando sempre ai cantanti l'onere - e l'onore - del maggior contributo musicale. Quest'opera è quasi un riassunto/compendio della sua stessa storia come genere, la sua aria più conosciuta Oh, mio babbino caro è un'aria di supplica, di preghiera, di elaborazione geniale, però ancora più geniale è il suo inserimento all'interno del contesto drammaturgico. Un'aria di una bellezza sublime che al tempo stesso è imprescindibilmente funzionale allo sviluppo degli eventi. Molto altro ancora si potrebbe dire riguardo l'aria del suo innamorato Rinuccio: Firenze è come un albero fiorito, aria eroica in miniatura. Tutto è sintetico, adeguato e necessario. Tutto questo, inoltre, è pervaso e determinato con un'economia di mezzi impressionante, pochi temi che si dilatano e si restringono, che cantano e narrano, dando una vasta tavolozza di colori a tutta la partitura. Gianni Schicchi è il lavoro di un genio. Un maestro è colui il quale conosce e domina i propri strumenti per arrivare a un risultato prefissato, un genio è colui il quale va oltre i propri mezzi, mezzi che virtualmente lo attraversano e generano un risultato assolutamente inaspettato. Ed effettivamente Gianni Schicchi è, senza eguali, qualcosa di più che la somma dei suoi ingredienti, è come un'esplosione di energia dove tutto si colloca in maniera emblematica. Ho voluto sempre vedere quest'opera come una forte difesa del genere operistico. Un genio come Puccini, in ciò che sarà la sua ultima opera scritta totalmente di suo pugno, intuisce che il momento è particolarmente critico. 1918, il cinema è già un'attrazione formidabile, e lo spettro di momenti bui si avvicina al mondo del teatro. Schicchi, nel finale dell'opera, si dirige al pubblico e, parlando - ossia, rinunciando alla principale risorsa dell'opera quale il canto - dice loro: «per questa bizzarria m'han cacciato all'inferno... - a lui o all'opera come suo genere? (ndr) - e così sia; ma con licenza del gran padre Dante, se stasera vi siete divertiti, concedetemi voi... l'attenuante!».


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