L’Ape musicale

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Note di regia

La febbre del Barbiere

di Carmelo Rifici

Accostarsi al capolavoro rossiniano non è cosa semplice; le innumerevoli messinscene e rivisitazioni cinematografiche hanno già offerto allo spettatore un ventaglio di ipotesi e suggestioni tali da rendere ardua ogni nuova interpretazione, inoltre, la scelta del Maestro Fasolis di utilizzare strumenti barocchi originali è già un chiaro segno dell’impostazione culturale dell’operazione.

La peculiarità de Il Barbiere di Siviglia è quella di non essere definibile né come opera buffa tout court, né tantomeno come opera legata ad un certo romanticismo di tendenza. È un’opera che trascende da una sua definizione. Lo spettatore di oggi non può rendersi conto delle innumerevoli infrazioni alle regole di cui è disseminata l’opera, che rompevano abitudini e aspettative. Il Barbiere fu dirompente sono tutti gli aspetti, sia per la costruzione dei personaggi, sia per l’organizzazione drammaturgica, ricavata da almeno sette opere precedenti. Pezzi scritti per opere tragiche, per atmosfere di marmorea antichità, diventano, improvvisamente e con sapienza, pezzi di ilare vivacità. Rossini riesce a creare irresistibili effetti comici da precedenti opere serie. Questo capolavoro, come dicevo, supera sia la struttura dell’opera buffa che dell’opera romantica, rovesciandole in un’astrazione che sfiora il surrealismo, creando un genere che non ha precedenti: una comicità assoluta, fuori dai concetti del buffo ed estranea ai sentimenti del romantico. Un’opera feroce.

Per questi motivi, con lo scenografo Guido Buganza, la costumista Margherita Baldoni e il light designer Alessandro Verazzi, abbiamo deciso di evitare qualsiasi collocazione troppo stretta e immaginato di collocare la vicenda in un’ambientazione che, pur rifacendosi alla tradizione architettonica iberica, supera il facile realismo preferendogli un’accezione quasi metafisica. L’impianto visivo sarà costituito da un palazzo fuori misura di azulejos e costumi tradizionali, ma asciugati da qualsiasi ammiccamento al folklore spagnoleggiante. Abbiamo cercato un’eleganza asciutta che possa respirare l’aria rossiniana, la sua ambiguità fatta di luci e ombre, di chiaroscuri. Tutto questo per far affiorare un attrito interessante: da una parte lo spirito critico del libretto, dall’altra l’astrazione della musica rossiniana. È questo attrito che impone una nuova comicità. L’opera appare divisa in due temi: la prima parte è costruita intorno alla febbre dell’oro, del denaro che tutto muove, ben rappresentata dalle figure di Figaro e di don Bartolo, ma anche dall’astuta vivacità di Rosina, consapevole di rappresentare un tesoro, di essere fonte di guadagno. Una specie di esplosione di vitalità economica. Proverbiali rimangono le frasi di Figaro “un vulcano la mia mente già comincia a diventar” o quella di Rosina “se mi toccano dov’è il mio debole sarò una vipera” fino allo sconcertante concertato dove “il cervello poverello (a causa dell’abbagliante luce dell’oro) si riduce all’impazzar”. Nella seconda parte, la febbre diventa delirio d’amore, il personaggio di Almaviva, il più legato all’opera romantica, prende il comando, scatenando su tutto e tutti un vento di inquieta e sorprendente emotività. L’opera si incurva, mostra i suoi lati più scuri, anche grazie ad una strumentale tempesta (di tuoni e lampi, ma anche di emozioni per niente scontate) fino alla stupefacente aria di Berta, che si impone per la sua tenera tristezza. Da una parte l’oro, il denaro, la lucidità dell’azione, dall’altra la musica, l’introspezione e l’astrazione. Tutto questo sarà scenicamente giocato attraverso due soluzioni: la prima risolta con l’utilizzo massiccio della luce che diventa scenografia, messa soprattutto al servizio dell’avido Figaro, moderno e allegro vampiro che si nutre dell’oro altrui, della luce degli altri; la seconda parte sarà raffigurata dalla presenza di mastodontici strumenti musicali, che diventeranno stanze, palcoscenici, ingombri per la struttura emotiva e astratta dell’opera. Inciampi necessari affinché la comicità si palesi nella sua reale lucidità e non nella caricatura dei personaggi. La tradizione scenica ci consegna dei ruoli classici, degli stereotipi che, nel nostro allestimento, tenteremo di trasformare in personaggi a tutto tondo, strappandoli alla gabbia del ruolo preconfezionato. La grandezza de Il Barbiere non sta nella sua bonaria comicità, ma nella consapevolezza che la comicità nasce dall’indisponenza e dall’asprezza delle situazioni. La leggerezza della luce, degli strumenti musicali a simulare stanze, porte e corridoi, la rotondità della recitazione saranno utili a spogliare l’opera del finto realismo, ma anche di liberarla della forzatura di una narrazione di caratteri.


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