L’Ape musicale

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sogno di una notte di mezz'estate

Note di regia di Elio De Capitani

Portare in scena all’interno di un unico progetto il Midsummer night’s dream di Benjamin Britten assieme all’originale shakespeariano da cui è tratto è un avventura molto affascinante sia per noi artisti coinvolti che, ne sono certo, per voi spettatori.

Tutte e due le regie, sia della prosa che dell’opera, tengono però conto della mutazione interpretativa occorsa al Sogno. Si addice qui la citazione di una poesia di Ungaretti, che pure compie cent’anni, composta infatti nel 1916.

Il porto sepolto

Vi arriva il poeta

E poi torna alla luce con i suoi canti E li disperde.

Di questa poesia

Mi resta Quel nulla

Di inesauribile segreto.

Il sogno rimanda da sempre – a partire dalla citata scena del risveglio dei ragazzi ma anche dal ritorno al ruolo di Teseo ed Ippolita degli attori che incarnano Oberon e Titania – a questa sensazione di viaggio verso il porto sepolto, con un ritorno, al giorno o alla superficie, che lascia solo l’eco del canto e un evanescente nulla: che perpetua però il segreto di una sorgente sotterranea, notturna, inesauribile, e il doppio viaggio indispensabile con cui l’umanità attinge al suo inconscio collettivo tramite l’arte, i cui doni sono assai meno palpabili di quelli della scienza, dell’agricoltura, dell’industria, ma non sono meno necessari per la nostra identità. Lo fa dire Shakespeare con altre parole a Teseo e Ippolita:

IPPOLITA E' ben strana, mio Teseo, la storia che raccontano gli innamorati.

TESEO Più strana che vera. Io non potrò mai credere a queste fiabe antiquate, a questi racconti di fate e d'incantesimi. Il cervello degli innamorati è come quello dei pazzi; e la loro fantasia crea forme che la fredda ragione non comprende. Il lunatico, l'amante e il poeta sono fatti della stessa sostanza dei sogni.

IPPOLITA Ma nella storia di questa notte c'è qualcosa di più che le invenzioni della fantasia.

I loro racconti, e l'inganno che ha traviato le loro menti insieme e nello stesso modo, formano qualcosa che ha la coerenza della realtà, anche se appare strano e meraviglioso.

Quel nulla di inesauribile segreto si illumina per pochi istanti nelle forme che creano il pazzo, l’amante e il poeta. Ma per anni, il segreto di Shakespeare è stato nascosto dal tulle delle fate e dalle mossettine aggraziate degli elfi.

Scritto da uno Shakespeare poco più che trentenne, si suppone lo stesso anno di Romeo e Giulietta, il 1595, Sogno di una notte di mezza estate ha sofferto fino alla metà del secolo scorso di un pregiudizio interpretativo – sia di lettura critica che scenica – che limitava l’esplorazione alla superficie, gaia e giocosa, di una commedia senza troppa complessità. Il Sogno era addirittura l’epitome della leggerezza, resa tangibile dal ruolo di Puck spesso sostenuto da una ragazza che eseguiva con grazia gli ordini del re degli elfi Oberon. Ma il disvelamento di ben altri livelli di lettura – celebre il saggio Shakespeare nostro contemporaneo di Jan Kott uscito nel 1961 – aprì il mondo magico del bosco Shakespeariano ad una esplorazione senza pregiudizi, che si rivelò assai feconda.

Il primo a prendere un aspetto ben diverso fu proprio Puck. Già nel testo, la fata che lo fa incontrare a noi spettatori ne illustra le ambivalenze tra il giocoso e l’oscuro, fino ad suggerire una natura di demone più che di elfetto bonario o al massimo dispettoso. E del resto la ricchezza multiforme è descritta anche dai suoi diversi nomi (Robin Good-fellow e Hobgoblin, oltre che Puck) che lo fanno slittare verso l’immagine più simile a quella di un fauno, portatore quindi di istinti sessuali.

Ed è proprio l’eros a irrompere, non solo attraverso Puck, nelle nuove letture del Sogno che abbandonano l’assoluta asessualità sia del mondo fatato che dei giovani umani in fuga da Atene che lo attraversano

spaventati. Appena si rompe il velo della pruderie vittoriana che stende la sua ombra fino a metà del secolo successivo, il Sogno rivela d’essere innervato di corporalità e di desiderio carnale ben oltre quel che si poteva inizialmente presupporre. Il velo della pudicizia fu spostato, tentando di contrapporre l’eros lunare della irrazionale notte al solare giorno della ragione dove tutto si compone e dove, al posto delle pulsioni irragionevoli del sesso, tutto trova senso nell’ordine delle cose sancito dal matrimonio.

Ma anche questa barriera deve cedere il passo: ad analizzare il testo con attenzione, giorno e notte non rappresentano la ragione che prevale sull’istinto, ma prendono la forma di plurime contraddizioni ben più complesse che possono essere ben comprese, concedendosi la semplificazione, dalla contrapposizione tra conscio e inconscio.

Che l’eros abiti il giorno allo stesso livello del mondo lunare del bosco lo dicono le prime frasi del Duca Teseo e di Ippolita, che fremono di desiderio per l’imminente ma non immediata consumazione del matrimonio:

TESEO Il piacere che immagino è così grande, che incanta tutti i miei sensi.

Cosa succederà quando la bocca potrà gustare il nettare dell'amore?

La morte io temo, qualcosa che mi faccia svanire nel nulla –

IPPOLITA O una gioia piena di grazia, potente e insinuante, un suono tanto dolce e sottile che i sensi non sappiano accoglierlo.

La sensualità espressiva è palpabile, che sia per il maschile che per il femminile si conclude in un eccedenza di piacere tale da temere di non poterla reggere. Parlando ad Ermia che ama riamata Lisandro e lo vuole sposare, mentre non vuole Demetrio, che non ama anche se lui impazzisce d’amore per lei e ha pure il consenso di suo padre, Teseo dirà:

TESEO Bella Ermia, considera bene i tuoi desideri, pensa alla tua giovinezza, agli ardori del tuo sangue.

Saprai vestire la tonaca di una suora e restare per sempre nell'ombra sterile di un monastero?

La rosa che dona il suo profumo è più felice di quella che si dissecca intatta fra le spine, e vive e muore in una pace solitaria.

Anche qui, la visione positiva della componente erotica dell’esistenza umana è contrapposta alla castità forzata con una metafora di forte impatto persino spietata.

Shakespeare ci avverte subito, attraverso i suoi personaggi: e la macchina dei sogni diurni e notturni, tra anni sessanta e quelli attuali, poté finalmente tingersi di colori meno diafani ed esangui e rivelare quale era la sorgente nascosta della potenza magica evocata da Shakespeare: una potenza che potremmo definire dionisiaca, celata da un apollineo travestimento che non ha retto la tempesta del XX secolo.

La notte però vede un eros turbato – con la lacerazione degli amanti che vedono improvvisamente invertito il ruolo tra Ermia negletta e Elena ora amata dai due ragazzi incantati da Puck col fiore magico di Oberon - e un eros conturbante, con il lato oscuro e fin morboso, che ha il suo culmine nell’accoppiamento di Titania e Bottom trasformato in asino da Puck.

Gli accoppiamenti animali, da Pasifae in poi, hanno un che di classico che li nobilita: ma rimandano ad una violenza erotica smodata e strabordante, un tabù intollerabile impossibile da infrangere. Che ci fa un accoppiamento bestiale con un Bottom iperdotato in una favola? Come possiamo tollerare che questo accoppiamento abbia riferimenti espliciti in un classico del teatro come il Sogno di Shakespeare?

L’idea di classico diffusa oggi coincide con l’immagine di qualcosa che sta in un Pantheon, assodato, definito e immutabile nel suo valore. E invece c’è sempre una incandescenza irredimibile nei classici, che sono diventati tali per la forza con cui sono emersi nella loro epoca e per la forza con cui hanno resistito all’attraversamento di quelle successive. Questa incandescenza è fatta anche dall’osare visitare luoghi oscuri, dalla trasgressione di questa calata agli inferi del desiderio che viviamo attraverso Titania, alterata “chimicamente” per vendetta dal suo sposo crudele e anche perverso, poi pentito, ma che intanto la sottopone a qualcosa di davvero osceno.

Ma il Sogno cessa per questo di essere una commedia? Nient’affatto. La visione dell’eros che Shakespeare ci propone non è univoca perché è a sua volta ricca, molteplice, sempre con una componente sottilmente ambigua e che visita l’osceno senza vergogna: ma è innanzitutto l’ironia -feroce o delicata, a seconda dei momenti e anche della forza degli interpreti - che tempra il tutto in una leggerezza ritrovata; ma non a priori, negando per pruderie puritana la dimensione dionisiaca del Sogno, ma – cosa assai importante – sapendo trovare a posteriori una nuova leggerezza, dopo aver attraversato l’inquietudine del dionisiaco.

La leggerezza ritrovata è quella che ha fatto di questa versione del Sogno con la regia di De Capitani il più grande successo di tutta la ultraquarantennale storia del Teatro dell’Elfo – a partire da un allestimento puramente d’occasione al Teatro romano di Verona nel 1997, poi evolutosi in ben tre riallestimenti con cambio di scene e costumi (sempre curati da Carlo Sala e Ferdinando Bruni) compreso quello attuale e infinite varianti di cast. Basti dire che, oltre allo stesso Bruni – che fu al debutto il creatore di Puck ereditato poi da giovani attori - Oberon è stato interpretato negli anni da Antonio Latella, Paolo Pierobon, Filippo Timi e Cristian Giammarini. Lo stesso è accaduto per i ruoli dei ragazzi. Fino alla edizione attuale De Capitani aveva riservato per sé il ruolo di Bottom, che cede ora ad un giovane attore della compagnia.

Ma a decretarne il grande successo è stata di sicuro anche dimensione comica irresistibile incarnata dalla acrobatica sezione del quartetto dei ragazzi - nella scena esilarante del litigio nel bosco - e soprattutto dall’irrefrenabile quintetto degli artigiani che ha il suo trionfo nella farsa finale, la parodistica ma non meno che tenera storia di Piramo e Tisbe, tragedia brillante.

 


 

 

 
 
 

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