L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

Wolfgang Amadeus Mozart, Per questa bella mano K 612

Nel Catalogo su cui annotava via via le proprie composizioni Mozart inserì in data 8 marzo 1791 “un’aria per basso con contrabbasso concertante per i sigg. Gorl e Pischelberger. Per questa bella mano”. Gorl era in realtà Franz Xaver Gerl, ingaggiato nella compagnia di Emanuel Schikaneder e destinato a diventare di lì a poco il primo Sarastro nella Zauberflöte; quanto a Pischelberger, era contrabbassista nella medesima troupe. L’elemento che più colpisce in quest’aria è la presenza del tutto anomala di un contrabbasso concertante, che cioè duetta alla pari con la voce di basso, anzi, fiorisce i temi e si slancia in avventurosi passaggi di bravura. Come solista il contrabbasso ha avuto sempre vita difficile e qui Mozart lo usa evidentemente per gratificare l’amico musicista: un esperimento timbrico, a cui si aggiunge la trasposizione una tantum del virtuosismo dalla voce allo strumento, e per giunta a uno dei più pachidermici dell’intera orchestra. Certo, qui Mozart mette alla prova l’estensione del suo futuro Sarastro: incalzata dal contrabbasso, la voce rimbalza dall’acuto al grave, immettendo un’insolita serietà nella beatitudine arcadica dell’Andante. Memorabile la nota scurissima raggiunta su “costante fè”; e se un po’ tutta l’aria, col suo tenero andamento di barcarola, sembra ricordare la dolcezza di Susanna nel giardino delle Nozze di Figaro, qui l’emozione erotica della “notturna face” di lei si trasforma in corrispettivo sonoro della più granitica fedeltà.

Wolfgang Amadeus Mozart, Mentre ti lascio, o figlia K 513

Gli Jacquin erano amici carissimi di Mozart: il padre Nikolaus, botanico, chimico e studioso di mineralogia, coperto di gloria accademica e di onorificenze, era anche un buon flautista e amava organizzare serate musicali in casa propria. La figlia Franziska studiava con Mozart, che le dedicò il Trio “dei birilli” K 498; il figlio Gottfried aveva una buona voce di baritono e si dilettava anche di comporre, anzi, l’amico Wolfgang scrisse uno dei suoi Lieder (Als Luise K 520) non solo per lui, ma perché addirittura lo inserisse in un album da pubblicare a proprio nome, segno di un affetto davvero profondo e complice. Ed è appunto per Gottfried, in questo contesto di confidenza cameratesca, che Mozart nel 1787 compose l’aria Mentre ti lascio, o figlia, poi pubblicata come K 513. Il testo proveniva da un libretto d’opera, La disfatta di Dario, scritto dal duca salernitano Nicola Morbilli di Sant’Angelo e musicato da Giovanni Paisiello nel 1777; si tratta di un addio del padre alla figlia, in cui Mozart resta lontanissimo da qualsiasi sentimentalismo, cogliendo piuttosto una sorta di patetismo schilleriano in cui l’animo cerca di resistere al dolore, secondo il modello che da Lessing a Schiller si identificò in modo esemplare con il gruppo statuario del Laocoonte. Evidentissima la prossimità cronologica con il Don Giovanni: dopo un’introduzione pacata dell’orchestra, la voce riprende un frammento del tema e subito lo inflette a una dimensione di ansia crescente, tra “le smanie ed il terror”, che spinge la melodia a scarti improvvisi, intervalli di ampiezza tale da pregiudicare una cantabilità lineare. Il pianto della figlia (“Tu piangi?”) si riflette plasticamente in orchestra; e su “mi si spezza il cor” le frasi si troncano, di nuovo raffigurando il testo per sinestesia. Il giovane Jacquin poteva dirsi contento: con quest’aria poteva mostrare tutto quello che aveva imparato in termini di intonazione e messa di fiato (fin dalla lunga nota d’esordio), e se non gli erano concessi inopportuni virtuosismi, in questa singolare aria così lontana dagli schemi abituali di forma poteva mostrare quella sensibilità di recitazione e adesione alla parola che costituiva la frontiera più avanzata della vocalità teatrale.

Ludwig van Beethoven, Meeresstille und glückliche Fahrt op. 112

Era la fine del 1814 quando Beethoven cominciò a occuparsi di una nuova cantata corale, che unì come un dittico due poesie di Goethe, Meeresstille und glückliche Fahrt (“Mare calmo e felice navigazione”) che viaggiavano affiancate fin dalla loro prima comparsa nel Musenalmanach di Schiller (1796). La prima evoca in realtà il terribile fenomeno della bonaccia, che nel 1798 Coleridge nella Ballata del vecchio marinaio aveva identificato con una punizione sovrannaturale: il termine Stille, “silenzio”, va quindi inteso non come “calma”, ma piuttosto come assenza di vita. Beethoven aveva sempre manifestato interesse per le scritture del passato, la polifonia, la scrittura dei madrigali e qui ne dà prova fin dalle battute iniziali, dove l’evocazione del silenzio si traduce in un’impressionante immobilità di scrittura; su “fürchterlich” (“spaventosa”), lo sgomento del coro diventa angoscia palpabile, con un sussulto improvviso che si ribadisce poche battute dopo, quando le linee vocali si spalancano di colpo su “ungeheure Weite” (“immensa vastità”). Goethe stesso aveva costruito le due poesie in opposizione, sfruttando un elemento ritmico: il primo testo è tutto basato sul trocheo (lunga-breve), il secondo tutto sul giambo (breve-lunga); immobilità e movimento che Beethoven amplifica nella sua lettura. Refoli di aria nelle linee degli archi, gioioso prorompere dell’orchestra, finora ridotta ai minimi termini, echeggiarsi delle parti del coro in un animato scoppiettio di richiami: alla superficie statica della prima parte subentra così una festa collettiva che, attraverso la mediazione dei cori di Händel, presagisce già le inflessioni del finale della Nona Sinfonia.

Ludwig van Beethoven, Elegischer Gesang op. 118

Composto nel luglio 1814, il “Canto elegiaco” nacque come omaggio privato alla giovane moglie del barone Pasqualati, morta appena ventiquattrenne tre anni prima; il testo è costituito da soli tre versi estrapolati da un più ampio omaggio funebre scritto qualche mese prima dal poeta Friedrich Haug in memoria di un altro poeta, Johann Georg Jacobi, morto a gennaio. La composizione venne pubblicata soltanto nel 1826 e per questo ha un numero di catalogo così alto a dispetto della cronologia effettiva. Si tratta di un singolare innesto del coro su un quartetto d’archi, che anzi comincia da solo, con un intimismo già presago degli ultimi quartetti beethoveniani. Il coro intona i primi due versi con una dolcezza che fa pensare alla Deutsche Messe di Schubert; su “Kein Auge wein’” subentra un gioco di imitazioni, con un profilo melodico che allude evidentemente al pianto; ma la chiusa riprende il verso e il tema iniziale, amplificandolo e congedandosi affettuosamente su “hast du vollendet”, dove il compimento è in realtà congedo e addio.

Elisabetta Fava

Johannes Brahms, Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98

Nel 1884, appena un anno dopo la composizione della Terza Sinfonia, Brahms si mise al lavoro per quella che doveva essere la sua ultima Sinfonia, la Quarta, in mi minore, composta nelle due estati del 1884 e 1885 a Mürzzuschlag, in Stiria; gli stretti rapporti intrattenuti in quegli anni con la corte e con l’eccellente orchestra di Meiningen influirono sulla decisione di riservare a questo centro, dominato dalla personalità e dall’azione di Hans von Bülow, le prove e la prima esecuzione della nuova opera, non senza suscitare qualche gelosia nel mondo musicale viennese.

Un primo saggio in versione per due pianoforti (suonavano Brahms e Ignaz Brüll) era già stato presentato a Vienna, in casa del fabbricante di pianoforti Ehrbar, per pochi amici: Hanslick, Kalbeck, Pohl, Billroth, Hans Richter, tutti finissimi intenditori, oltre che fedeli adepti di Brahms, i quali tuttavia non rimasero bene impressionati dall’opera appena finita, giudicata in generale troppo elaborata, dotta, costruita, di poca presa sul pubblico. In particolare il Finale, apprezzato in se stesso, sembrò a qualcuno una pagina da presentare da sola, fuori dal corpo della Sinfonia. Brahms lasciò tutto come stava, ma arrivò a dirigere la prima esecuzione pubblica, a Meiningen il 25 ottobre 1885, con la convinzione che l’opera non avrebbe incontrato favore per la sua difficoltà; il suo scetticismo fu invece smentito da un’ondata di ammirazione, ripetutasi puntualmente a ogni esecuzione durante una tournée in Germania e Olanda dell’orchestra di Meiningen guidata da Von Bülow. Solo a Vienna, al solito guardinga verso ogni novità, la nuova composizione fu accolta con qualche perplessità nel gennaio del 1886, in un’esecuzione (a quanto pare non preceduta da un numero sufficiente di prove) diretta da Hans Richter, il quale guidò la prima esecuzione a Londra, nel maggio dello stesso 1886, con l’opera ancora manoscritta, e dirigerà ancora la Quarta a Vienna nel marzo 1897, questa volta con enorme successo, dovuto anche alla presenza in sala di Brahms. Fu la sua ultima apparizione in pubblico, pochi giorni prima della morte; seminascosto in un palco del Musikverein, fu intravisto dal pubblico e dai musicisti in orchestra e salutato da una travolgente ovazione di simpatia e affetto, forse la più trionfale di tutta la sua carriera.

La sequenza dei quattro movimenti tradizionali della sinfonia nella seconda metà dell’Ottocento, incombendo l’esempio della Nona Sinfonia di Beethoven, era stata sentita dai compositori più avvertiti come un limite da rifondere in una cornice più originale; lo stesso Brahms, poco incline per temperamento alle novità, nella Prima e nella Terza Sinfonia aveva mostrato qualche segno di attenzione all’originalità strutturale, ampie introduzioni, ritorni tematici fra un movimento e l’altro. Ma per la Quarta Sinfonia gli stimoli verso novità di superficie tacciono del tutto: Wagner era morto nel 1883 e i suoi ferventi seguaci, come Bruckner o Hugo Wolf, erano avvertiti da Brahms a troppa distanza per trarne incitamenti alla modernità. Nella Quarta, incardinata nella regola dei quattro movimenti canonici, conta soprattutto il messaggio interiore, la ricerca personale, come se il compositore scrivesse prima di tutto per se stesso, quasi incurante delle istanze del mondo esteriore; che tuttavia penetra (e come!) nell’opera mirabile, soltanto filtrato, osservato da un occhio critico capace di fecondare ogni piega del linguaggio con i significati espressivi più personali. In particolare, Brahms si compiace di tenere assieme le cose più disparate, incominciando dagli estremi della più disarmata semplicità (l’esordio del primo movimento) e del più complesso lavoro compositivo (le variazioni sul tema di ciaccona nel Finale): con suprema sprezzatura la semplicità è esibita, mentre la dottrina è nascosta.

Semplice cantabilità liederistica e contrappunto bachiano sono solo due poli della densità di atteggiamenti racchiusi nella Quarta. Un altro è il carattere tzigano-ungherese, che spesso si espande nel primo movimento con vigorosa vitalità di pizzicati e ritmi di danza (all’epoca della Quarta Brahms aveva solo cinquant’anni, anche se tutti tendiamo a pensarlo più vecchio); vitalità che spumeggia in modo particolare nel terzo movimento, con il tono impetuoso di una fanfara ingentilita dal tinnire festoso del triangolo. Senza fare uso di arpe o corno inglese, un’altra caratteristica dell’orchestra di questa sinfonia è la tendenza pre-debussiana alla nuvola sonora, alla macchia impressionistica, ottenuta da un inedito impiego degli archi suddivisi: le fanfare dei fiati nel primo movimento appaiono ogni tanto come “diseroicizzate” dagli archi, che le avvolgono in una sorta di bruma sonora. Nel meraviglioso Andante moderato, dopo l’appello del corno, quasi eco dell’età dell’oro romantica, nessun nuovo suono si fa avanti senza che l’ultimo della frase precedente sia svanito, in un trascolorare di conclusioni dilazionate, nota su nota, timbro su timbro. Il Finale, celebre monumento all’arte della variazione, si basa su un basso di ciaccona ricavato dalla Cantata BWV 150 di Bach; alla variazione che procede su periodi di otto battute per volta, perseguita con lo scrupolo degli antichi maestri, il Brahms più moderno sovrappone un’ampia architettura ternaria con due sezioni sinfoniche che racchiudono e quasi proteggono al centro un episodio cameristico, di schietta ispirazione lirica, in cui spicca l’immortale assolo del flauto; la tenerezza radunata al cuore della composizione è falciata come un fiore dalla ripresa della prima sezione che conclude la sinfonia, con tragica concisione.

Giorgio Pestelli


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.