L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Gli autori al pubblico

Non il sequestro, non la prigionia, non la morte. Perché la vita di quest’uomo non può essere ridotta ai suoi cinquantacinque giorni estremi, trascorsi in una condizione così crudele di violenza e privazioni.

Scritta nel 2016, centenario della nascita di Aldo Moro, Un’infinita primavera attendo trova il suo interlocutore ideale nella ragazza che appare prima ancora dell’alzarsi del sipario. Che cosa ne sa lei, giovane italiana di oggi, del lascito di questo statista? Della sua formazione, del suo progetto, delle sue certezze, dei suoi dubbi. Del continuo interrogarsi sul senso del proprio impegno, nella volontà incoercibile di spiegare, ascoltare, comprendere. Della sua fedeltà ai valori dell’Italia repubblicana. Dell’affidarsi a una fede che consola, e che molto esige.

Una cosa è stata chiara fin dall’iniziodel nostro lavoro. Non sarebbe stata un’agiografia; non la tragedia di un singolo;non un bozzetto di un’epoca lontana. Avrebbe prevalso la complessità della vicenda politica di Aldo Moro. Il fato di Moro era già sancito dal progressivo e quasi rituale accerchiamento e isolamento che lo colpì negli ultimi anni. Nel 1978 il lavoro di tutta la sua vita era quasi compiuto col compromesso storico, ma quel lavoro, una volta macchiato dal sangue suo e della sua scorta, non poté essere duraturo. Il sipario cala un minuto prima del rapimento. Per noi conta il suo messaggio nella bottiglia: la fiducia nella parola, nel dialogo, nell’avvicinamento, per quanto faticoso, tra pensieri differenti: «Non sono mai cattive le cose che vengono dette con sincerità. Invece, non sono utili le cose che si nascondono, che si riducono a serpeggianti mormorazioni».

Ovviamente la mediazione, il rovello, l’astuzia, la parola stessa, possono essere ingannevoli, possono tradire, rivelarsi incomprensibili. Abbiamo così tentato di trattare dialetticamente il messaggio nella bottiglia, di valutarne i limiti e la potenzialità. La tragedia di Moro è una tragedia del linguaggio, e della reciproca sordità. Gli esiti, a partire da quella primavera del 1978, sono ancora visibili a noi tutti. Mai le parti opposte, in qualunque esperienza umana, sono sembrate più in-conciliabili e in-dialogabili che nel mondo moderno, in cui apparentemente tutti possiamo comunicare – spesso senza contraddittorio. Una società di grida senza ascolto, parcellizzata, impalpabile. Rovesciamento diabolico del pensiero moroteo.

Un’infinita primavera attendo è un’opera italiana. Un’opera, non un melologo, non un dramma con parti musicali. Siamo convinti che si possa ancora adoperare questo genere tanto ricco di convenzioni (come convenzionali del resto sono tutte le forme d’arte) e di rituali senza nessuna nostalgia passatista, né nella forma né nel contenuto.

Un’opera in musica non può raccontare una storia, ma solo narrarla, estrarne il senso profondo. Nel palcoscenico ricostruiamo in piccolo una comunità che si sfalda, che volta le spalle al suo capo. Nessuno dei personaggi ha un nome. Ognuno ha sicuramente un lontano modello, che lo spettatore può cercare di indovinare. Tutti sono una funzione, sono le forze che hanno modellato la storia, sono (anche) le istanze destinate a travolgere il Presidente. In questa funzione c’è però sempre un personaggio, una umanità da salvaguardare. C’è una Segretaria, che incanala nel mondo reale l’attività intellettuale del Presidente. C’è uno Studente che cerca di avvicinarsi alla politica con ammirazione e diffidenza insieme. C’è un Senatore americano che crede – prima con blandizie, poi con ira – di poter disporre del Presidente e dell’Italia. C’è un Cardinale che mette il Presidente di fronte alle contraddizioni del suo essere cattolico: che lo vorrebbe tenuto a un rigore, a un’obbedienza, contrari al suo agire politico. C’è un Politico italiano cui è affidata la definitiva archiviazione del Presidente e del suo linguaggio. C’è poi, più temibile di tutti, l’integerrimo Intellettuale che affronta il Presidente così come Pasolini affrontò la Democrazia Cristiana, con un vertiginoso atto d’accusa cui (forse) non è possibile rispondere se non con parole di dialogo, di apertura. Di fiducia.

Anche mentre il mondo gli si rivolta contro, il Presidente non cede; attende un’infinita primavera, che va ben oltre la prigionia, tra marzo e maggio, del suo alter ego storico.

La fiducia nell’essere umano, e nel trascendente, hanno sempre accompagnato l’operato di Moro. Entrambi – la possibilità di una comunità e un riferimento a qualcosa di invisibile, ultramondano – sono fin dalle origini il nucleo più profondo dell’esperienza teatrale. Il teatro d’opera è la forma d’arte più complessa, e più rischiosa, del mondo occidentale. Più rischiosa perché mette in gioco le competenze di chi la fa e di chi vi assiste. Non poteva essere che un’opera a restituire la complessità di un’esperienza come quella di Aldo Moro, attuale più che mai.

Sandro Cappelletto, Daniele Carnini


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