L’Ape musicale

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George Friederic Handel, Rinaldo – VIENNA, 15 dicembre 2013 – Tra i meriti del Theater an der Wien vi è quello di presentare, in parallelo con la stagione di opere scenicamente allestite, una stagione di opere eseguite in forma di concerto: lì sono accolti titoli rari, o con interpreti che difficilmente si presterebbero a una lunga serie di recite, estirpando alla radice il rischio di tradimenti registici a danno del testo musicale (un rischio che sui palcoscenici mitteleuropei è concreto fino all’esasperazione). Tuttavia, è proprio in questa seconda stagione che si assiste ai maggiori e più incomprensibili arbitrii sul testo musicale in quanto tale, e poi sulle sue valenze espressive e drammaturgiche: vale a dire tagli su tagli, che smozziconano la partitura originale alterandone le strutture. Quel che è peggio, tale accanimento fallisce proprio nel suo obiettivo implicito, ossia una sensibile riduzione della durata dello spettacolo per una più agiata sopportazione da parte del pubblico meno interessato: i venti minuti guadagnati, a conti fatti e a fronte della musica esclusa a maldestri colpi di forbice, non valgono la candela risparmiata.

Colpi maldestri ve ne sono stati a iosa nel Rinaldo di Händel (Londra 1711) eseguito il 14 dicembre: recitativi tagliati ora quasi per intero ovvero per un risibile numero di battute, qui facendo sparire parti fondamentali dell’azione, là conservando con zelo parti del tutto accessorie; arie private del recitativo che le precede e che ne motiva l’enunciato, fino alla paradossale esecuzione consecutiva, al termine dell’atto II, di due arie dello stesso personaggio di Armida («Ah! crudel, il pianto mio» e «Vo’ far guerra e vincer voglio»); soprattutto, mentre ariette di personaggi secondari sono scrupolosamente mantenute al loro posto, si assiste allo scandaloso taglio di arie maggiori e intoccabili, vedi la celeberrima e furibonda sortita di Argante, «Sibilar gl’angui d’Aletto», con le sue tre trombe in organico, o la cancellazione di tre parti di tromba su quattro nel brano che idealmente – con uguale fragore ma altra statura morale – le risponde dopo due atti per bocca del protagonista, «Or la tromba in suon festante». Sia che una scelta artistica tanto più imbarazzante quanto più conscia, sia che meri motivi di budget – non ratificabili da parte di un critico musicale – abbiano portato a tale scempio, si è procurata così una grave pena a uno spettacolo altrimenti nato sotto buoni auspicii. Di interesse maiuscolo è innanzitutto la presenza di Franco Fagioli nel ruolo protagonistico: nessun controtenore può vantare oggi il suo stesso appuntito o pregnante mordente, la sua stessa disinvoltura nel virtuosismo senza rete, la sua stessa presenza in fatto di volume e coinvolgimento espressivo. Si tratta di un unicum, e da un’aria all’altra il fenomeno lascia sbalorditi. Pure, sbaglierebbe chi voglia ritrovare qui il non plus ultra esibito nel suo Arbace dell’Artaserse di Hasse o di Vinci: ugualmente abile nel registro di contralto (il caso di Handel, che scrisse per il Nicolino e per il Senesino) e in quello di soprano (il caso di Hasse e Vinci, che scrissero per il Carestini e per il Farinelli), Fagioli scocca tuttavia in questo secondo àmbito, anziché nel primo e cioè in un Rinaldo, le sue frecce più spettacolose e altrui precluse. Intorno al protagonista, qualche delusione e qualche rivelazione. Deludono tanto Karina Gauvin come Armida quanto Gianluca Buratto come Argante: entrambi mostrano segni di affanno o direttamente di insufficienza naturale e tecnica, soprattutto nell’ascesa alle note acute e nella pulizia timbrica. Guizza invece, con emissione facile e limpidezza di suono, l’Almirena di Emőke Baráth, a dispetto dell’indisposizione ufficialmente annunciata; il Goffredo di Varduhi Abrahamyan vanta accento incisivo e animosa pasta mediosopranile; funzionale è infine l’Eustazio di Xavier Sabata, diligente controtenore cui non giova il diretto accostamento all’astro Fagioli. Le ultime parole spettano all’orchestra con strumenti originali “Il pomo d’oro”, fondata l’anno scorso, e al suo direttore Riccardo Minasi, che è anche violinista di rango e filologo di qualche merito. Già deplorati i tagli inflitti alla partitura, rimane da lodare la brillantezza, la fragranza, la sollecitudine di fraseggi non mai scontati, ma anzi illuminati da un’arguzia tipicamente italiana: nelle sinfonie e nelle arie del Rinaldo, quasi tutte intonate su metri di danza ben riconoscibili, ciò balza all’orecchio e lo gratifica. Spiacciono solo alcune intemperanze maturate forse nella voglia di strafare: per esempio, le sezioni esterne della sarabanda «Cara sposa, amante cara» sono qui eseguite a parti reali (un solo strumento per ogni parte) anziché con tutta l’orchestra, in cerca di un intimismo che non ha chiaro riscontro filologico, e che trova invece a disagio tecnico gli strumentisti di sezione sbalzati al ruolo di solisti.


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