L’Ape musicale

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Gioachino Rossini, La Cenerentola – VIENNA, 16 dicembre 2013 – La piccola sala seminterrata della Kammeroper è oggi sede sussidiaria del Theater an der Wien: vi hanno luogo in particolare spettacoli musicale con fine divulgativo, pedagogico o formativo, per lo spettatore neofita come per il giovane musicista. Per undici recite (25 novembre - 21 dicembre), il cartellone ha così annunciato La Cenerentola di Rossini, in una versione tuttavia abbreviata: molti recitativi sono sostituiti da una voce narrante, tutte le parti corali sono omesse, i personaggi di Don Magnifico e Alidoro, assai alleggeriti, ricadono su un unico interprete in doppia maschera. Tra tanto lavorìo di forbici, spuntano un paio di sorprese: al posto della grande aria di Alidoro, «Là del ciel nell’arcano profondo», composta da Rossini per la ripresa romana del 1820, si ritrova il brano originale, «Vasto teatro è il mondo», oggi di rarissimo ascolto, composto da Luca Agolini per la “prima” del 1817; e prima del rondò finale di Angelina è altresì riaperto l’usuale taglio dell’aria di Clorinda, «Sventurata! Mi credea», anch’essa di Agolini e deliziosa per la sfacciata morale messa in bocca alla sorellastra: si riascolta un brano musicalmente non indimenticabile, ma la definizione del personaggio fa un gran balzo in avanti. Anche l’organico strumentale è ridotto al minimo, e rasenta l’esecuzione a parti reali: ciò rivela nondimeno all’orecchio il giardino di legni e ottoni, di sovente nascosto dietro la coltre di archi troppo fitti. Nell’esecuzione della Wiener Kammerorchester diretta da Konstantin Chudovsky, poi, la lettura è sempre esatta, lucida, scattante, e in pieno accordo con le ragioni del canto e dei cantanti. Questi ultimi sono i giovani dell’accademia di perfezionamento promossa dal Theater an der Wien, e sono tutti non solo vocalisti di pregevole materiale e tecnica, ma anche attori rifiniti, disinvolti, versatili e giocosi fino all’autoironia e ai più sottili giochi di teatro nel teatro e di straniamento dal personaggio verso il suo interprete. Protagonista è Gaia Petrone, la cui Angelina è patetica e affettuosa nel timbro di rotonda femminilità, e la cui statura di primadonna in fieri è comprovata dall’agiato registro di mezzosoprano, dall’affondo in turgori androgini, dal balenare a brillanti note acute, dallo sciorinare la coloratura minuta, dal volare da un capo all’altro della tessitura senza temere le più frastagliate cadenze. Le è accanto il tenore statunitense Andrew Owens, un poco anglicizzante nella pronuncia a dispetto dell’impersonare Don Ramiro principe di Salerno: la scrittura di altro repertorio, più spianata e lirica, gli calzerebbe meglio di quella rossiniana, mobilissima e virtuosistica; pure, la linea di canto è di rara eleganza, il registro acuto squilla impavido, il personaggio concilia l’alterigia del rango con la simpatia dell’innamorato. L’anello debole della compagnia è Ben Connor, baritono in sé di buona caratura vocale e di notevole vivacità scenica: qualcuno per lui, però, ha sottovalutato le difficoltà della parte di Dandini, cui compete non tanto l’immediatezza della buffoneria quanto – quanto anche – un dominio tecnico a prova di semicroma.

Come già detto, le ben differenti parti di Don Magnifico e Alidoro convergono su un solo interprete, Igor Bakan; la circostanza giustifica l’accentuazione caratteriale dei due personaggi, con un Don Magnifico ipercaricato, rozzo e decrepito fino alla demenza, e con un Alidoro al contrario signorile e asciutto, cui la sobria aria di Agolini conviene meglio di quella sontuosa di Rossini. Due assi di recitazione e caratterizzazione sono infine calati, come spesso accade, con la coppia delle sorellastre, e cioè con la pungente e maliziosa Clorinda di Gan-ya Ben-gur Akselrod e con la flemmatica e querula Tisbe di Natalia Kawalek-Plewniak. Molti meriti hanno, senza dubbio, anche la regista Jasmin Solfaghari, lo scenografo Mark Gläser e la costumista Petra Reinhardt: il loro spettacolo istruisce i cantanti senza impacciarli, si sovrappone alla musica senza tradirla, realizza il testo verbale con divertita brillantezza e qualche innocua licenza (per esempio quando, nel tripudio finale della fiaba, Angelina chiude il rondò, ritorna al trono e inorridisce: al posto di Don Ramiro c’è ora un impettito principe-ranocchio).


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