L’Ape musicale

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cefalo e procri

Torna Krenek in dittico con Colasanti

CEFALO E PROCRI

DOPO OLTRE 80 ANNI L'OPERA DI KRENEK

TORNA IN UN NUOVO ALLESTIMENTO AL TEATRO MALIBRAN

Eccessivo è il dolor quand’egli è muto

Ciò che resta

musica di Silvia Colasanti

Cefalo e Procri - una moralità pseudo-classica

musica di Ernst Krenek

libretto di Rinaldo Küfferle

direttore Tito Ceccherini

regia di Valentino Villa

Orchestra del Teatro La Fenice

nuovo allestimento fondazione Teatro La Fenice

prima esecuzione: Venezia, Teatro Malibran | venerdì 29 settembre 2017, ore 19

repliche: 1, 3, 5 e 7 ottobre 2017

Con Cefalo e Procri, Valentino Villa firma la sua prima regia d’opera in un nuovo allestimento della fondazione Teatro La Fenice, al Teatro Malibran di Venezia il 29 settembre in prima assoluta (repliche 1, 3, 5 e 7 ottobre).

Composta da Ernst Krenek su libretto di Rinaldo KüfferleCefalo e Procri, una «moralità pseudo-classica», condensa tutta la forza di un dramma della gelosia e dell’incomprensione tra i due amanti narrati da Ovidio ne Le Metamorfosi. Andata in scena al Teatro Goldoni di Venezia nel 1934, l’opera viene riproposta al Teatro Malibran, con la direzione di Tito Ceccherini, dopo oltre ottantanni anni dal debutto e affiancata da due brani della compositrice Silvia ColasantiEccessivo è il dolor quand’egli è muto dal Lamento di Procri di Francesco Cavalli presentato in prima assoluta, e Ciò che resta, un ideale dittico incentrato sul mito ovidiano.

«In Krenek la morte di Procri a opera di Cefalo è stata cancellata. Procri sopravvive grazie  all’intervento della dea Diana» spiega Villa, già regista di molte opere di drammaturgia contemporanea «Al contrario Eccessivo è il dolor quand’egli è muto di Silvia Colasanti si nutre di questa morte il cui lascito è, nella mia visione, tristemente raccontato in Ciò che resta.  Abbiamo quindi una doppia immagine del mito e di conseguenza una doppia immagine di Procri. E se i brani di Colasanti sembrano nutrirsi di un sentimento angoscioso e quasi tragico, Krenek ci dà una diversa indicazione della sua opera definendola “una moralità pseudo-classica”».

Questa indicazione ha portato Villa a privare la storia di Cefalo e Procri della sua aura mitica: se ci devono essere degli dei allora questi non saranno dissimili da ogni uomo. L’Olimpo diventa una comoda dimora dove gli dei rivaleggiano tra loro, e un laboratorio in cui i due protagonisti costituiscono un semplice divertissement, vivendo all’interno di un diorama. «Questo dispositivo,racchiude la loro intera storia come ricostruzione di un frammento di mondo classico» commenta il regista. «Una pseudo-classicità appunto; una classicità finta, di plastica, simbolica. Qui il mito vive nelle sue molteplici interpretazioni, cristallizzato nel tempo eppure soggetto a ripetizioni e alterazioni. Cefalo e Procri sono esistenze fittizie manovrate da una mano esterna che ne scrive e riscrive la storia, come pedine in un parco giochi dei sentimenti. In un certo senso il loro mondo potrebbe somigliare a quello di Westworld, il film di Michael Crichton recentemente rivisitato nella serie di HBO».

Valentino Villa

Regista. Diplomatosi all’Accademia Nazionale Silvio d’Amico, segue il corso di perfezionamento per attori diretto da Luca Ronconi e si diploma come insegnante del metodo Linklater, Freeing the Natural Voice. Dal 1999, come attore, lavora con Ronconi in produzioni del Teatro di Roma e del Piccolo di Milano. Dal 2006 le sue regie indagano la drammaturgia contemporanea e il rapporto tra prosa e teatro musicale. Dopo Party Time di Harold Pinter, Orlando di Virginia Woolf, A single Man di Christopher Isherwood e altri testi inediti per l’Italia, affronta l’opera di Jean-Luc Lagarce mettendo in scena per la prima volta in Italia Noi, gli Eroi e, per RAI Radio3, Music-hall con l’attrice Premio Ubu Daria Deflorian. Nel 2009, su invito dell’Italian Restyle Festival di Berlino, elabora un progetto dal Castello di Barbablù di Béla Bartok; dal 2012 è insegnante di recitazione presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e membro del suo Consiglio Accademico, e dal 2013 è interprete dello spettacolo Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni di Deflorian/Tagliarini. Nel 2017 i rapporti fra la lingua alfieriana e Giuseppe Verdi sono al centro del suo Oreste (da Vittorio Alfieri). Cefalo e Procri segna in Fenice il suo debutto nella regia lirica.


CEFALO E PROCRI

Eccessivo è il dolor quand’egli è muto

Ciò che resta

musica di Silvia Colasanti

Cefalo e Procri

musica di Ernst Krenek

libretto di Rinaldo Küfferle

direttore Tito Ceccherini

regia di Valentino Villa

scene Massimo Checchetto

costumi Carlos Tieppo

cast

Cefalo Leonardo Cortellazzi

Crono William Corrò

Procri Silvia Frigato

Aurora Cristina Baggio
Diana Francesca Ascioti

Orchestra Teatro La Fenice

nuovo allestimento fondazione Teatro La Fenice

prima esecuzione: Venezia, Teatro Malibran | venerdì 29 settembre 2017, ore 19

repliche: 1, 3, 5 e 7 ottobre 2017


NOTE DI REGIA

Valentino Villa

Considero il teatro d’opera un naturale approdo nel mio percorso di ricerca scenica e per il mio processo creativo. La musica è sempre stata presente nei miei lavori non come sfondo ma come struttura e modello di riferimento. La mia attrazione per la musica è un’attrazione per l’astrazione e per la matematicità e per l’emersione del materiale emotivo che prescinde dal racconto e dal linguaggio. Naturalmente, sono molto emozionato all’idea di aver ricevuto questo invito da un’istituzione come il teatro La Fenice’’.

Ogni autore accresce e assottiglia il corpo delle storie e così il mito continua a respirare, secondo una suggestione di Roberto Calasso. È in questi termini che guardo a Cefalo e Procri di Ernst Krenek e Eccessivo è il dolor quando egli è muto di Silvia Colasanti. I due universi musicali sono poli di uno stesso percorso al centro del quale si colloca un secondo brano di Silvia Colasanti, Ciò che resta, che, pur non composto in stretta relazione con il mito raccontato, si offre come ponte tra l’una e l’altra visione.

Tra l’opera di Krenek e le composizioni di Colasanti c’è un importante incongruenza tematica, quasi uno stridio, un attrito, che chiedeva di essere sottolineato: in Krenek la morte di Procri ad opera di Cefalo è stata cancellata. Procri sopravvive grazie  all’intervento della dea Diana. Al contrario Eccessivo è il dolor quand’egli è muto di Silvia Colasanti si nutre di questa morte il cui lascito è, nella mia visione, tristemente raccontato in Ciò che resta.  Abbiamo quindi una doppia immagine del mito e di conseguenza una doppia immagine di Procri. Ancora, se i brani di Colasanti sembrano nutrirsi di un sentimento angoscioso e quasi tragico, Krenek ci dà una diversa indicazione della sua opera definendola “Una moralità pseudo-classica”.

È a partire da questa indicazione che ho deciso di privare la storia di Cefalo e Procri della sua aura mitica: se ci devono essere degli dei allora questi non saranno dissimili da ogni uomo. Li vediamo mentre rivaleggiano tra loro in un Olimpo che è comoda dimora, un laboratorio in cui dare vita ai loro giochi, ai loro esperimenti con il simulacro di altri uomini. Cefalo e Procri, i due protagonisti, non sono altro che un divertissement per loro: vivono all’interno di un diorama. Questo dispositivo racchiude la loro intera storia come ricostruzione di un frammento di mondo classico. Una pseudo-classicità appunto; una classicità finta, di plastica, simbolica. Qui il mito vive nelle sue molteplici interpretazioni, cristallizzato nel tempo eppure soggetto a ripetizioni e alterazioni. Cefalo e Procri sono esistenze fittizie manovrate da una mano esterna che ne scrive e riscrive la storia, come pedine in un parco giochi dei sentimenti. In un certo senso il loro mondo potrebbe somigliare a quello di Westworld, film del 1973 scritto e diretto da Michael Crichton e rivisitato in una recente serie televisiva prodotta da HBO.

Questa operazione acquisisce per me senso solo in relazione ai due brani composti da Silvia Colasanti. Procri ne diviene protagonista: il suo Lamento ci fa conoscere il suo dolore, è il canto di una morte a venire o di una morte già accaduta in un altro tempo e in un altro racconto. Ciò che Resta ci permette di raccogliere il lascito di questa esistenza e di innalzarla ad una riflessione più ampia e soffusa sul senso della perdita.

L’afflato umano ed emotivo, sottotraccia in Krenek, è magistralmente condensato nei lavori di Silvia Colasanti. Così i due finali possibili si ricollegano in scena e il lieto fine confezionato da Krenek, così meccanico nel suo rivelarsi all’interno del diorama, si sovrappone alle dolorose immagini della morte di Procri: una vittoria retorica sulla morte, della quale, nonostante tutto, permane un’ombra, il ricordo di un’immagine, di un suono.


DALLE NOTE DI SALA DI SILVIA COLASANTI

L’opera di Krenek offre una visione ‘edulcorata’ del mito, con un singolare lieto fine che si allontana dal racconto delle Metamorfosi di Ovidio. Io invece ho voluto affrontare questa storia privilegiando il suo originario aspetto tragico, dove si incontrano gelosie insinuate da terze figure che portano a tradimenti che altrimenti non si sarebbero mai consumati, fino a culminare nella terribile morte di Procri.

L’autrice spiega come la sua musica s’intrecci con le sonorità antiche di Cavalli: “sono partita proprio dall’antico, cioè dalla struttura tipica del lamento barocco, dove Procri piange la perdita del suo amato, aggravata dal fatto che il tradimento di cui è accusata è stato provocato e risulta sforzato. Il titolo del brano riprende letteralmente le ultime parole del testo musicato da Cavalli. La linea vocale è rimasta pressoché intatta rispetto a quella seicentesca, tranne nel fatto che ho modificato alcuni tempi, allargando alcune parti per farle diventare più liriche, mentre altre sono più mosse perché hanno un carattere maggiormente recitativo. C’è dunque un lavoro sul tempo e sulla scansione metronomica. Prima dell’ingresso di Procri, tuttavia, ho collocato una lunga introduzione orchestrale che presenta un linguaggio estremamente aspro e tipico del nostro tempo. In essa è raccontata una grande inquietudine, che mano a mano fa presagire le armonie che poi arriveranno con il lamento di Procri. Nei movimenti tellurici dell’orchestra ci sono dei piccoli frammenti, molto lavorati timbricamente, di queste armonie che giungeranno in seguito. Tutta questa prima parte ‘inquieta’ ha una sua direzionalità che esplode in un fortissimo finale per poi sfociare nell’ingresso del soprano. Pur distinguendosi nitidamente il linguaggio di Cavalli, al tempo stesso, come è naturale, quello stesso linguaggio viene riattualizzato. Mi capita d’utilizzare questo tipo di procedimento anche in composizioni che non hanno una partenza così chiara ed esplicita. Lavorare su contesti armonici e centri modali del passato per poi interpretarli e ‘velarli’ con lo sguardo della modernità è una modalità che mi appartiene e a cui ricorro anche nei pezzi che scrivo abitualmente. Quindi in questo caso mi sono trovata a casa nell’affrontare quest’operazione. Le parti un po’ più mosse molto spesso sono accompagnate solo da un quintetto di fiati (flauto, oboe, due clarinetti e un fagotto), che punteggiano le zone destinate ai ‘recitativi’. Invece per quelle più liriche subentra l’intervento degli archi, in una sorta di orchestra da camera che prevede anche due corni, tromba, trombone e percussioni.

Si stabilisce dunque una sorta di dialettica tra musica d’oggi e tradizione. In determinati momenti drammaturgici, che costituiscono come delle pause, ritornano le ‘bolle’ di inquietudine iniziali, che si vanno a inserire nel tracciato antico con un linguaggio invece composto di cluster ed elementi più tipici del nostro passato più recente. La nostra epoca presenta una peculiarità che la differenzia da quelle che l’hanno preceduta: noi stringiamo un rapporto con tutto il nostro passato, rispetto agli autori di centocinquant’anni fa abbiamo un respiro più largo, che da una parte è un po’ angoscioso, perché il peso della tradizione è schiacciante, dall’altra, però, poter guardare Cavalli ed Henze quasi con la stessa distanza è davvero bellissimo, e il nuovo pezzo mi ha permesso di esprimere appieno questo sentimento. 


 

 

 
 
 

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