L’Ape musicale

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cefalo e procri

DALLE NOTE DI SALA DI SILVIA COLASANTI

L’opera di Krenek offre una visione ‘edulcorata’ del mito, con un singolare lieto fine che si allontana dal racconto delle Metamorfosi di Ovidio. Io invece ho voluto affrontare questa storia privilegiando il suo originario aspetto tragico, dove si incontrano gelosie insinuate da terze figure che portano a tradimenti che altrimenti non si sarebbero mai consumati, fino a culminare nella terribile morte di Procri.

L’autrice spiega come la sua musica s’intrecci con le sonorità antiche di Cavalli: “sono partita proprio dall’antico, cioè dalla struttura tipica del lamento barocco, dove Procri piange la perdita del suo amato, aggravata dal fatto che il tradimento di cui è accusata è stato provocato e risulta sforzato. Il titolo del brano riprende letteralmente le ultime parole del testo musicato da Cavalli. La linea vocale è rimasta pressoché intatta rispetto a quella seicentesca, tranne nel fatto che ho modificato alcuni tempi, allargando alcune parti per farle diventare più liriche, mentre altre sono più mosse perché hanno un carattere maggiormente recitativo. C’è dunque un lavoro sul tempo e sulla scansione metronomica. Prima dell’ingresso di Procri, tuttavia, ho collocato una lunga introduzione orchestrale che presenta un linguaggio estremamente aspro e tipico del nostro tempo. In essa è raccontata una grande inquietudine, che mano a mano fa presagire le armonie che poi arriveranno con il lamento di Procri. Nei movimenti tellurici dell’orchestra ci sono dei piccoli frammenti, molto lavorati timbricamente, di queste armonie che giungeranno in seguito. Tutta questa prima parte ‘inquieta’ ha una sua direzionalità che esplode in un fortissimo finale per poi sfociare nell’ingresso del soprano. Pur distinguendosi nitidamente il linguaggio di Cavalli, al tempo stesso, come è naturale, quello stesso linguaggio viene riattualizzato. Mi capita d’utilizzare questo tipo di procedimento anche in composizioni che non hanno una partenza così chiara ed esplicita. Lavorare su contesti armonici e centri modali del passato per poi interpretarli e ‘velarli’ con lo sguardo della modernità è una modalità che mi appartiene e a cui ricorro anche nei pezzi che scrivo abitualmente. Quindi in questo caso mi sono trovata a casa nell’affrontare quest’operazione. Le parti un po’ più mosse molto spesso sono accompagnate solo da un quintetto di fiati (flauto, oboe, due clarinetti e un fagotto), che punteggiano le zone destinate ai ‘recitativi’. Invece per quelle più liriche subentra l’intervento degli archi, in una sorta di orchestra da camera che prevede anche due corni, tromba, trombone e percussioni.

Si stabilisce dunque una sorta di dialettica tra musica d’oggi e tradizione. In determinati momenti drammaturgici, che costituiscono come delle pause, ritornano le ‘bolle’ di inquietudine iniziali, che si vanno a inserire nel tracciato antico con un linguaggio invece composto di cluster ed elementi più tipici del nostro passato più recente. La nostra epoca presenta una peculiarità che la differenzia da quelle che l’hanno preceduta: noi stringiamo un rapporto con tutto il nostro passato, rispetto agli autori di centocinquant’anni fa abbiamo un respiro più largo, che da una parte è un po’ angoscioso, perché il peso della tradizione è schiacciante, dall’altra, però, poter guardare Cavalli ed Henze quasi con la stessa distanza è davvero bellissimo, e il nuovo pezzo mi ha permesso di esprimere appieno questo sentimento. 


 

 

 
 
 

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