L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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All’Idomeneo non ha giovato la regìa di Damiano Michieletto. Siamo alle solite: il regista, anziché farsi mediatore presso il pubblico di un testo teatrale esistente, chiuso e definito in un preciso orizzonte culturale, lo prende a pretesto per farne un lavoro autoreferenziale, nel quale la relazione con libretto, musica, esecutori e pubblico diventa accessoria, non richiesta, fors’anche sgradita. Il regista si isola in un processo di decostruzione: vorrebbe far piazza pulita del mito e delle sue logiche, e far scendere i personaggi dal loro rango principesco e dalla loro alta morale: Idomeneo dovrebbe passare da re tracotante e straziato a ometto schizofrenico, Idamante da eroe innamorato a bulletto pentito, Ilia da principessa prigioniera a piccola fiammiferaia, Elettra da esule ambiziosa a donnetta facile. Con quale mira etica, non si sa: così raccontato, Idomeneo ritrae forse le miserie dell’uomo di ogni tempo, ma non ha più alcunché da insegnargli, in tendenza opposta a poesia e musica eloquentissimi. Vedere attori e masse sempre intenti a malmenarsi, insozzando i costumi di Carla Teti nella scena di Paolo Fantin (una distesa di terra sparsa di stivali di gomma), rende infine la cifra dello spettacolo, che stomaca nei primi minuti per l’inutile truculenza delle immagini e annoia poi per quanto resta.

Spiace constatare l’allineamento dei musicisti alla pretestuosità della regìa. Per quanto tutti i cantanti manifestino impegno, il flebile Idomeneo di Richard Croft manca di autorevolezza regale, paterna e virtuosistica (le altere agilità di «Fuor del mar ho un mare in seno» scadono a nevrotici sfoghi tra sé); l’Idamante di Gaëlle Arquez, a dispetto del buono smalto, mostra segni di stanchezza vocale già nell’aria di sortita; l’Ilia di Sophie Karthäuser si consacra alla mestizia e disconosce i toni radiosi e sognanti che pure le si chiederebbero (per esempio in «Zeffiretti lusinghieri»); l’Elettra di Marlis Petersen, infine, scende a torbidi patti con note gravi e acute, dovendo nel contempo esibirsi in spogliarelli, lanci di parrucca ed esilaranti rivoltamenti in pozze di fango. Il più giustamente applaudito è l’Arbace di Julien Behr, evanescente di emissione ma elegante nel porgere. Una consolazione si trova nella piccola parte del Gran Sacerdote di Nettuno: Mirko Guadagnini si presenta infatti affaticato e fibroso, ma dà a tutti una lezione di accento drammatico all’italiana, con dizione scolpita e dovizia di sfumature. La locandina annuncia infine, senza tema di rossore, che la Voce di Nettuno canta in absentia: la machina del deus è infatti un amplificatore che diffonde la traccia di un CD. Nossignori, no.

Con René Jacobs sul podio della Freiburger Barockorchester e dell’Arnold Schönberg Chor, infine, ci sarebbero le premesse per un capolavoro di concertazione. Puntualmente, la lettura del direttore belga si ammira per pulizia, ritmo, gusto descrittivo e maniacale preparazione della compagnia di canto: nei recitativi le appoggiature tornano tutte al loro posto, anziché finir rinnegate per mera ignoranza di ovvietà; e già questo equivale alla riscoperta di buona parte dell’opera. Proprio nei recitativi figura, però, anche un tradimento stilistico: ai cantanti è richiesto di deporre la declamazione coturnata e di avvicinare i brani a un parlato confidenziale o sovreccitato, ritmicamente e melodicamente deforme in ambo i casi; ciò ben si combina col teatro di regìa di Michieletto, ma con esso costituisce una presa di distanza dalla verità testuale e storica. Alcuni minuti di applausi al chiudersi del sipario: ma il pubblico viennese è pronto a ben altro calore, ed essi paiono pochi perché si possa parlare di un successo.


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