L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Sbiaditi nella pioggia

di Luigi Raso

Un allestimento invecchiato precocemente, cupo e povero di idee, una concertazione poco incisiva, troppe approssimazioni dovute forse a proeve insufficienti e una protagonista - pur d'altro profilo, subentrata all'ultimo momento non giovano alla ripresa estiva della traviata al San Carlo. Meritano comunque un plauso le qualità di Marina Rebeka e Luca Salsi.

NAPOLI, 14 luglio 2024 - Stride con il caldo torrido che attanaglia Napoli la pioggia lenta e implacabile, evocatrice di frescure invernali, che silenziosamente scivola sui fondali della Traviata: nella vulgata semplificatrice degli appassionati d’opera napoletani questa è la Traviata “della pioggia”, per quanto questo allestimento - firmato da Lorenzo Amato per la regia, e per le scene e costumi dalla inossidabile coppia del compianto Ezio Frigerio e della compagna Franca Squarciapino - è connotato da quella pioggerellina che accompagna e irrora la narrazione degli ultimi mesi di vita di Violetta. È una produzione già vista al San Carlo, andata in scena la prima volta nel 2018 (qui la recensione) e successivamente ripresa in più occasioni.

La pioggia, dunque. Elemento identificativo di questo allestimento. Nelle intenzioni di Amato, è immagine discreta dell’inesorabile scorrere del tempo, del lento e subdolo progresso della malattia che divora Violetta, dello straniamento della protagonista. Lo Spettacolo dalle tinte scure è immerso in una cupa malinconia, ben incorniciata e rafforzata dall’impianto scenico di Ezio Frigerio che, seppur privo di orpelli, non sempre appare improntato al buon gusto al quale lo scenografo lombardo ci ha abituato. Dai colori accesi, qualcuno perfino sgargiante, invece i costumi curati con la consueta maestria ed esperto calligrafismo da Franca Squarciapino.

Questa è una Traviata immersa nell’800, dominata da un’atmosfera di oppressivo perbenismo borghese: i fondali dipinti a mano nel 2018 nei laboratori di scenografia del San Carlo restituiscono l’idea degli interni di un’abitazione aristocratica della Parigi del Secondo Impero, una rassicurante villa di campagna, lo sfarzo dei saloni della dimora di Flora e, infine, la desolazione della camera da letto di Violetta. Tuttavia, a distanza di sei anni dalla prima rappresentazione, questo spettacolo appare invecchiato troppo presto, probabilmente perché privo di un disegno registico che si incarichi di proporre un filo drammaturgico individuabile e originale, di fornire qualche spunto interessante, di fare teatro indagando le dinamiche tra i personaggi. E invece a dominare sono una staticità generale, movimenti stereotipati da parte dei protagonisti, un limitato gioco di luci: troppo poco per creare uno spettacolo coinvolgente.

Ben curate le coreografie di Giancarlo Stiscia che vedono nel Balletto del Teatro di San Carlo enel Matador di Giuseppe Ciccarella dei danzatori disinvolti ed efficaci.

Il versante registico evidenzia con molta probabilità - così, come si dirà, quello musicale - l’assenza di un numero adeguato di prove: i protagonisti, infatti, si limitano a una gestualità scontata e poco articolata, la cui efficacia, il coinvolgimento sono ben poco palpabili.

Uno spettacolo compassato, sia perché costruito sull’idea di una Traviata crepuscolare e cupa, concepita come riflessione sullo scorrere del tempo, immaginata come un flashback cinematografico: l’opera, infatti, comincia dalla fine, dal grigio e piovoso funerale di Violetta. Al netto dell’immagine straziante e plastica dell’ultimo stadio della malattia della protagonista all’inizio dell’atto III (la sedia a rotelle di Violetta), al termine di questa ripresa si fatica a ricordare qualche trovata registica davvero interessante.

Compassata e non sempre esente da imprecisioni è la direzione di Giacomo Sagripanti, che della Traviata dà una lettura eccessivamente sbrigativa, poco tornita; tra qualche eccesso di decibel, approssimazione nella tenuta tra orchestra e palcoscenico, ben poca aristocratica sprezzatura nella materia musicale, la lettura di Sagripanti procede fluida, ma senza lasciar tracce interessanti.

Si ha la sensazione che la parte musicale sia stata messa su, così come la regia, senza la dovuta cura, con un numero di ore di prove non adeguato: alla prima, infatti, sono evidenti degli squilibri sonori, varie sfasamenti, un’articolazione del discorso musicale superficiale e un’apatia esecutiva di fondo. Anche dall’Orchestra del San Carlo non traspaiono la consueta concentrazione e cura del suono. Nel complesso disciplinato il Coro diretto da Fabrizio Cassi, sebbene risenta del poco coinvolgimento generale, che, man mano che la serata procede, rafforza l’idea di trovarsi davanti a un’opera in fieri.

Il contegno musicale rinunciatario si riflette in parte anche sul cast vocale, sebbene per la protagonista, il soprano lettone Marina Rebeka, siano doverose delle premesse.

La Rebeka, infatti, è stata catapultata in questa produzione a pochissimi giorni dalla prima, a seguito della cancellazione per indisposizione di Lisette Oropesa, protagonista annunciata e attesa sin dalla presentazione della stagione lirica 2023 - 2024.

Questa di stasera è una prima tribolata: Marina Rebeka, che da anni non vestiva i panni di Violetta, ha dichiarato in un’intervista concessa a Donatella Longobardi per il quotidiano Il Mattino di aver accettato di sostituire la Oropesa in gesto di gratitudine e disponibilità verso la collega indisposta e il San Carlo, teatro nel quale impersonerà Amelia in Simon Boccanegra. Nel valutare la prova di Marina Rebeka, pertanto, non si potrà tener conto di queste circostanze: l’invito a subentrare all’ultimo momento, il ritorno precipitoso a Napoli dopo soli pochi giorni dal concerto inaugurale del Festival di Ravello, la difficoltà ad inserirsi nel programma di prove, la tensione per un debutto improvviso e non adeguatamente preparato al San Carlo.

La sua è una Violetta che, almeno per i primi due atti, non si discosta molto da una tendenziale correttezza: Marina Rebeka sfoggia il suo bel timbro, la voce ha uno spessore che le consente di riempire adeguatamente la sala, affronta i passaggi più insidiosi con tecnica sicura. Le colorature dell’atto I sono sgranate, pulite e precise; tuttavia, a latitare è il personaggio di Violetta, il suo bruciare d’amore, il suo vivere e consumarsi nell’attesa della morte. Nei primi due atti la Rebeka appare imbrigliata in una comprensibile cappa di tensione che si dirada soltanto nell’atto III, quando regala un “Addio del passato” cantato benissimo e interpretato con accenti molto toccanti.

Per le circostanze turbolente attraverso le quali è maturato il debutto sancarliano, quello sulla Violetta di Marina Rebeka è un giudizio sospeso e interlocutorio, che deriva dalla consapevolezza di aver assistito, per ciò che riguarda la protagonista (e non solo!), a una prova generale piuttosto che di una vera e propria prima. Volendo azzardare un giudizio prognostico sulla base di quanto ascoltato stasera, sicuramente la prova della Rebeka, alla luce dell’ottima forma vocale e della professionalità dell’artista, migliorerà, e sensibilmente, nel corso nelle due successive rappresentazioni.

Kang Wang è invece un Alfredo con emissione troppo indietro: la voce, di conseguenza, manca di adeguata proiezione e squillo; la linea di canto denota qualche incertezza di troppo, qualche suono spoggiato e stimbrato di troppo. Un Alfredo, quello del tenore cino-australiano, soltanto sbozzato, sbrigativo e non molto preciso.

Luca Salsi invece disegna un Giorgio Germont autorevole, vocalmente e scenicamente, con un’idea precisa di fraseggio e di cosa sia la parola scenica verdiana. Il baritono parmigiano presta la solita attenzione alle inflessioni vocali della parte, anche le più sottili. Talora il suo Germont padre appare troppo vicino, quanto a tasso di perfidia, ai suoi plastici Scarpia, Macbeth e Jago: c’è forse un eccesso di cattiveria, ma che tuttavia non inficia una prestazione brillante per resa vocale e interpretativa.

Ben inseriti nello spettacolo i numerosi ruoli secondari a cominciare dalla Flora Bervoix di Clarissa Leonardi e dall’Annina di Laura Ulloa, ex allieva dell’Accademia Teatro di San Carlo. Si segnalano, pur nella brevità delle rispettive parti, il Gastone di Giacomo Leone, il barone Douphol di Gabriele Ribis, il marchese d’Obigny di Pietro Di Bianco, il dottor Grenvil di Lorenzo Mazzucchelli, Giuseppe di Salvatore De Crescenzo, il domestico di Flora di Giuseppe Scarico, il commissionario di Ville Lignell, gli ultimi tre elencati artisti del Coro del san Carlo.

Al termine, il folto pubblico del San Carlo tributa un calorosissimo successo per tutti, con una evidente punta di entusiasmo e affetto per la Violetta di Marina Rebeka, la quale ringrazia il pubblico visibilmente raggiante e soddisfatta.


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