L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’amato Pollini

 di Stefano Ceccarelli

La stagione da camera dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia si fregia del recital pianistico di un interprete straordinario e molto amato dal pubblico italiano (e non solo): Maurizio Pollini, che esegue un programma di opere di autori a lui molto cari. Si parte con Ludwig van Beethoven, la Bagatella in mi bemolle maggiore op. 126 n. 3 e la Sonata n. 28 in la maggiore op. 101; si prosegue con Robert Schumann, con la Fantasia in do maggiore per pianoforte op. 17; si termina con Fryderyk Chopin: la Mazurka in do minore op. 56 n. 3, la Barcarola in fa diesis maggiore op. 60, la Ballata n. 4 in fa minore op. 52 e lo Scherzo n. 1 in si minore op. 20. Il concerto termina in una commovente standing ovation.

ROMA, 7 febbraio 2022 – Maurizio Pollini è forse il più amato pianista italiano oggi in attività. La sua carriera, che sta per sfiorare il mezzo secolo, è costellata di successi, ma anche di una profonda dedizione allo studio, al miglioramento e, in definitiva, alla continua evoluzione del suo stile, limato costantemente negli anni come solo un vero esecutore consapevole, direi quasi filosoficamente, può fare. Tale costante evoluzione, seppur quasi modesta (in senso etico prima ancora che performativo), dimostra l’umiltà con cui Pollini si pone davanti alla pagina di uno spartito pianistico, che magari legge da più di quarant’anni. È il caso, appunto, della maggior parte dei pezzi che l’interprete sceglie di portare stasera sul palco della sala Santa Cecilia, come mai quest’anno gremita di persone. L’attesa è quasi febbrile, palpabile l’amore che il pubblico prova per il suo beniamino.

Ecco avanzarsi in sala Maurizio Pollini, come sorretto da applausi corali. Gli autori prescelti dal maestro sono tra le sue più amate frequentazioni: Beethoven, Schumann e Chopin, che occupa l’intero secondo tempo. Lo stile di Pollini, soprattutto ripensando all’ultimo concerto in cui ho avuto occasione di ascoltarlo dal vivo, mi sembra ulteriormente rarefatto sia nel suono che nell’agogica. Pollini è interessato a mettere a nudo l’anima degli autori che legge, sfrondandoli di orpelli esornativi (come un uso massiccio della pedaliera), scarnificando il suono fino a far sembrare quasi di suonare in un salotto della sua Milano, per qualche amico, quasi improvvisando. Naturalmente, il tutto è frutto di una scelta oculatamente ponderata. La linea delle melodie risuona chiara, gli accompagnamenti limpidi. Tale rarefazione, che tocca – a mio avviso – l’apice in Schumann, ancorché mera stanchezza senescente, è piuttosto l’effetto di un pensiero che si concentra sull’essenziale, che sacralizza quasi esclusivamente ciò che è necessario, mirando, in un certo senso, a un’organica semplicità più che a un virtuosismo puramente esornativo. A tale pensiero musicale era giunto l’ultimo Abbado, rarefacendo il suono orchestrale in maniera inaudita. Sulla stessa via si pongono interpreti come Sokolov e Pogoreli

, ma in maniera del tutto differente. Sokolov, infatti, pur rarefacendo e semplificando la linea sonora, allargando l’agogica, rende ancora riconoscibile la linea ritmica di ciò che interpreta. Pogoreli

, invece, arriva talvolta a scardinare persino quella, rendendo a tratti, quasi, difficilmente intelligibile ciò che suona, persino a chi conosce bene quel dato pezzo o passo. Si tratta di una ricerca in sé magnifica, gravida di inaudite nuance sonore, ma certo a tratti discutibile sul piano estetico. In Pollini, invece, non si perde mai l’aderenza con lo spartito; ciò che si suona non diventa mai ipotesto del genio dell’interprete, ma è sempre centrale nella ricerca del pianista.

Il primo tempo è dedicato all’esecuzione di Beethoven e Schumann. La Bagatella in mi bemolle maggiore op. 126, n. 3 è perfetta per incominciare e testimonia bene lo stile di Pollini oggi: breve, concisa, tranquilla ma accattivante per la dolce linea melodica. Viene poi il turno della beethoveniana Sonata op. 101. Sperimentale nella forma, ardita nell’architettura, l’op. 101 è una vecchia frequentazione di Pollini, che l’ha anche incisa (come, del resto, l’integrale delle sonate di Beethoven). Pollini legge la partitura con attenzione ai particolari, senza slanci improvvisi. Il tema brillante dell’Allegretto ma non troppo (I) si imperla fra le dita di Pollini di un colore lievemente pacato, che trova la sua climax nell’Adagio (III), dove l’interprete trova un impasto delicatissimo, screziato qua e là delle invenzioni beethoveniane. Un assaggio del virtuosismo di cui Pollini è capace lo si può vedere nel IV movimento, che brillantemente conduce ad una coda agilissima, «fantasiosa fino alla bizzarria» (Spini, dal programma di sala). Chiude il I tempo la Fantasia op. 17 di Schumann. È forse questo il pezzo del concerto che più si allontana dalle abitudini d’ascolto degli spettatori. Pollini offre uno Schumann depurato da slanci puramente romantici, non calcato per quanto concerne gli effetti della resa dei passaggi. Si tratta di uno Schumann pacato, tutto giocato sulla tavolozza cromatica della malinconia, rarefatto anch’esso; certo uno Schumann alquanto divergente da letture più romantiche, intensamente trasportate. Il I tempo della Fantasia incarna perfettamente questa scelta stilistica. Le Rovine,cui il titolo allude, vengono evocate da una lettura sommessa, stabile sul mezzoforte, con dilatazioni temporali a piacere fra una sezione e l’altra, quasi che Pollini si prenda il tempo di respirare a suo piacimento, tutta imperniata sulla languida lettura del tema centrale (evocante l’amore del compositore per Clara), cui Pollini vuol dare una lettura scarna, quasi di uno spettro che si aggira, appunto, fra le evocate rovine. Il passaggio più marcato di tutta la lettura schumanniana è il II tempo, gli Archi di trionfo, in cui Pollini sottolinea la marcia spianata, ma senza accentuare il tutto in maniera muscolare, quanto piuttosto rendendo epico l’incedere della lettura. Il suono si irrobustisce e conferisce l’atteso ethos al pezzo. Il tempo che più si confà al gusto pianistico di questo momento della carriera di Pollini è il III, Palme, che si dipana in atmosfere rarefatte, cambi cromatici di tonalità, coloriture cangianti, il tutto, appunto, suonato a fil di tasto.

Il secondo tempo è interamente dedicato a Chopin. Il pianismo di Pollini si fa qui più chiaro e a tratti spedito. Testimonianza ne è il palpabile slancio con cui esegue la Mazurka op. 56, n. 3, dove si vede anche la sensibilità calibratissima dell’interprete nell’uso del rubato. Nella Barcarola op. 60 Pollini scolpisce un accompagnamento sgranato, usando parcamente il pedale e conferendo un’atmosfera rarefatta alla barcarola, che ne acuisce la lagunare acquaticità. La melodia si scioglie limpida fra le mani di Pollini, cullando l’ascoltatore, rapito dai passaggi brillanti della scrittura chopiniana. Si passa, poi, alla Ballata n. 4 op. 52. Pollini legge con accortezza la melodia, che si allunga in cromatismi e volute ingentiliti dal tocco rarefatto dell’interprete; l’agogica è attentamente sostenuta, lontana dalle ‘pause’ che il pianista si prendeva nella lettura di Schumann: il risultato è accattivante, brillantemente sensuale, le tipiche cifre della scrittura del polacco. Chiude il concerto lo Scherzo n. 1 op. 20. Pollini cavalca la scrittura agitata di Chopin nella sezione d’attacco e nella sua ripresa, regalando un contrasto nettissimo con il nucleo cantabile, il dolce tema natalizio che tanto a Chopin ricordava la sua terra natia. Tale nucleo, che è l’impressione di un ricordo, è eseguito da Pollini con tanta naturalezza da lasciare stupefatti. Al termine del concerto, dopo che Pollini era stato applaudito ad ogni pezzo, tutto il pubblico in sala si alza per regalare al maestro una meritatissima standing ovation. Solo dopo più di una chiamata sul palco, Pollini attacca le note indimenticabili della Ballata n. 1 in sol minore op. 23, terminando in maniera mirabile un concerto straordinario.


 

 

 
 
 

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