Rossini da fiaba
di Francesco Lora
Beati coloro che avranno iniziato a conoscere La Cenerentola attraverso lo spettacolo con regìa di Manu Lalli, direzione di Gianluca Capuano e – in scena – Teresa Iervolino, Patrick Kabongo, William Hernández, Marco Filippo Romano, Matteo D’Apolito e Maria Laura Iacobellis: quattro recite eccellenti al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.
FIRENZE, 22 settembre 2024 – Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino è quello dove La Cenerentola di Rossini ricevette da Jean-Pierre Ponnelle, nel 1971, regìa, scene e costumi ad alto tasso di definitività, destinati a girare il mondo e forse mai invecchiare. L’entusiasmo intorno alle ultime quattro recite del giocoso capolavoro a Firenze, nel Teatro del Maggio, dal 20 al 27 settembre, con un differente allestimento, vale dunque più che se si stesse relazionando dalla Scala di Milano o dal ROF di Pesaro: beati coloro che avranno iniziato a conoscere La Cenerentola attraverso lo spettacolo con regìa di Manu Lalli, scene di Roberta Lazzeri e costumi di Gianna Poli, viepiù a fuoco dopo essere stato creato nel 2017, all’aperto del cortile di Palazzo Pitti, ed essere già stato ripreso l’anno dopo, ben adattato per lo spazio chiuso. Entusiasma poiché null’altro fa se non raccontare la fiaba, con semplicità e chiarezza, senza perdersi in sovratesti e invece lavorando di lena con gli attori, elaborando sottili controscene, limitando le buffonate gratuite, restituendo intatta la tenerezza, commovendo tramite ciò che l’opera è; si avrà poi tempo di approfondire – e perder tempo, in metà dei casi – passando a Luca Ronconi o Irina Brook, Sven-Eric Bechtolf o Damiano Michieletto, Emma Dante o Stefan Herheim.
Ad aumentare il valore di questa seconda ripresa dello spettacolo della Lalli è l’approdo, dopo due bacchette di routine, a un concertatore il cui lavoro – come già nel recente Mozart della Clemenza di Tito al Festival di Salisburgo [Salisburgo, La clemenza di Tito, 05/08/2024] – serve a dare uno scossone contro la pigrizia delle letture musicali applicate al grande repertorio italiano. Tale rischio è oltremodo alto in Rossini, popolarmente fischiettato come melodista, sottovalutato con sufficienza come strumentatore e abitualmente guidato col pilota automatico, appoggiandosi cioè con martellata rigidezza sui suoi tipici moduli ritmici ripetuti fino all’ossessione (e che proprio in quanto tali, per contro, richiederebbero di essere vivificati anziché meccanicizzati). Gianluca Capuano sconfina ampiamente, ma deliberatamente e soprattutto utilmente, nel calligrafismo che insegna quale e quanto lavoro insospettato andrebbe fatto con La Cenerentola e ogni altra opera con insidiosa sorte analoga (fortunata ma polverosa): per ogni segmento egli individua un tempo, un colore, un gesto, un’increspatura, disinnescando la prevedibilità, facendo respirare il testo ed eccitando l’attenzione, tanto del pubblico quanto di Orchestra e Coro del MMF, che gli concedono un’encomiabile dose di arguzia e incisività.
La sua lettura avrebbe per la verità meritato una revisione – o una più massiccia revisione, secondo ciò che si va a dire – dell’assetto musicale stabilito da altri nelle recite del 2017-18. Una prima questione riguarda la fruizione consapevole del testo adottato. L’edizione critica a cura di Alberto Zedda, infatti, è stata pubblicata solo nel 1998, ma il suo primo varo era avvenuto proprio a Firenze nel ’71; come per ogni edizione critica, suo compito è restaurare il testo scritto e garantirne l’autenticità. Leggere il testo, però, è in parte un’altra faccenda, così come il movimento di esso nel tempo richiederebbe oggi la riapertura del cantiere filologico. Seguono due esempi macroscopici. Primo: era consuetudine che il compositore non notasse in partitura la parte dei timpani, ma la relegasse – magari per mano di un collaboratore – a un foglio sciolto, che poi andava spesso perduto; nell’edizione di Zedda i timpani non sono contemplati in quanto assenti dall’autografo, ma basta la vecchia edizione Ricordi, zeppa di errori e tuttavia non priva di buonsenso, per chiarire come quelle due caldaie vadano considerate implicite e da ripristinare; spiace invece che al Teatro del Maggio i timpani e il loro rimbombo siano mancati, persino in presenza di un notorio, compulsivo insertore di percussioni qual è Capuano.
Secondo esempio, utile per approssimarsi alle parole sulla compagnia di canto: com’è noto, nel 1817, alla creazione della Cenerentola, Rossini affidò tre “numeri” musicali al collega Luca Agolini, e sono l’aria “di sorbetto” di Alidoro («Il mondo è un gran teatro»), il coro all’inizio dell’atto II («Ah! Della bella incognita») e l’aria di Clorinda («Sventurata! Mi credea»; l’altro “sorbetto” nell’altro atto); oggi non se ne ascolta più alcuno: il coro e l’aria di Clorinda sono di norma tagliati, con l’effetto di non lasciar comprendere chi siano mai i birbanti che «sotto-cappotto» ridono di Don Magnifico e delle figlie, da una parte, e dall’altra di negare la sudata pagina solistica al soprano che si fa carico delle note più acute nei pezzi d’assieme; l’aria di Alidoro, pur deliziosa, è invece sostituita con quella («Là del ciel nell’arcano profondo»: assai più che un “sorbetto”) che Rossini in persona compose nel 1820, promuovendo una parte da comprimaria a bisognosa di un cantante eccellente. Bene: con Capuano sono finalmente avvenuti la scrittura di un’interprete di qualità per Clorinda e la riapertura del taglio dell’aria, ma il coro non ha potuto essere rimesso al suo posto, mentre nella visione fiabesca della Lalli – costei lo sapeva? – la filosofica aria originale di Alidoro sarebbe calzata meglio della paternalistica sostitutiva.
La buona notizia è che Matteo D’Apolito, nella parte del menzionato precettore, sa tenere a bada il temibile virtuosismo rossiniano, il quale altre volte – e solo per via della grande aria – aveva preteso non meno di un Michele Pertusi, un Lorenzo Regazzo o un Ildebrando D’Arcangelo. Come anticipato, Maria Laura Iacobellis restituisce a propria volta l’alta dignità primigenia alla parte di Clorinda, unendo allo spessore di caratterista una caratura vocale tanto inusuale, oggi, quanto ovvia secondo l’equilibrio drammaturgico dell’epoca. Aleksandra Meteleva, come Tisbe, funziona bene anche per il suo sapersi mantenere un opportuno passo dietro l’altra sorellastra. Preciso, elegante e diafano, il Don Ramiro di Patrick Kabongo è un principe azzurro non contaminato dall’elettrizzante comunicativa dei tenori italiani e ispanici, ma fa inappuntabilmente il proprio dovere: non è poco, considerata la collezione di sopracuti e semicrome che l’autore gli affida con l’usata inesorabilità e che il genere buffo tende a far minimizzare. In una maniera analoga, l’impervia parte di Dandini, fiorita fino all’assuefazione, trova in William Hernández un vocalista così impegnato e scaltro da potersi questi occupare con disinvoltura del brillante personaggio, complice un’eccellente possesso della prosodia italiana.
Il più epidermicamente buffo tra i bassi-baritoni buffi e applicati al repertorio italiano è oggi Marco Filippo Romano, con un tale tasso di contagiosa verve comica da sembrare talvolta fuori posto, a causa della mancata complicità del contesto; il suo Don Magnifico è ben noto e in circolazione da oltre dieci anni, ma quest’ultimo di Firenze ha il vantaggio di trovarsi in una lettura teatrale che lo integra appieno e avvalora, tra colleghi con i quali è possibile spalleggiarsi in un mutuo vantaggio artistico. La prima, in questo senso, è Teresa Iervolino nel ruolo della protagonista: muove con sollecita e adorabile spontaneità la propria Angelina nel gioco di squadra, e costringe il melomane a ricordare a sé stesso quanto temibile sia al contrario quella parte vocale, sciorinata con tanta simpatica ovvietà da parere all’inizio un esercizio sulle cinque note. Mentre va nobilmente esaurendosi l’apporto di Cecilia Bartoli, Sonia Ganassi e Daniela Barcellona, ecco appunto nella Iervolino la primadonna all’italiana di riferimento, per i giorni correnti e le esigenze di un’Angelina, un’Isabella dell’Italiana in Algeri o un’Ernestina dell’Equivoco stravagante, con pregnanza d’accento degna di un Tancredi o di un Arsace. Arsace, appunto, in Semiramide, che tornerà tra due anni alla Scala: Monsieur Meyer avrà fatto il proprio dovere?