Virtuosismo e poesia
Ottimo successo per la raffinata interpretazione del secondo Concerto di Liszt da parte del pianista svizzero, incorniciata da due pagine del Novecento storico dove la bacchetta di Rustioni, malgrado qualche scelta opinabile, si afferma con una visione originale
TORINO, 25 ottobre 2024 - Alzi la mano chi prima d'ora aveva mai ascoltato dal vivo l'ouverture per lo shakespeariano Il mercante di Venezia di Mario Castelnuovo-Tedesco (1895-1968). Nel capoluogo subalpino sarebbe molto difficile dal momento che l'ultima esecuzione risaliva all'11 gennaio 1935 con l'allora Orchestra Sinfonica di Torino della Radio Italiana diretta da Massimo Freccia, quando il pezzo, composto due anni prima, era ancora fresco di stampa. Un encomio particolare non si può quindi non tributare d'ufficio a Daniele Rustioni, il quale in apertura del concerto di giovedì 24 e venerdì 25 ottobre ha deciso di presentare il lavoro dell'autore fiorentino emigrato nel 1939 negli Stati Uniti in seguito alle leggi razziali. La pagina è sufficientemente articolata da occupare un quarto ora abbondante di musica e rivela in Castelnuovo-Tedesco un robusto talento di orchestratore memore della grande tradizione tardoromantica. Se l'ouverture avesse visto la luce trent'anni prima sarebbe potuta quasi apparire all'avanguardia nella concezione ma nel 1933 il suo stile guarda piuttosto al passato, nonostante qualche zampata tecnica di sapore coevo (certi impasti armonici asciutti, certe transizioni timbriche improvvise) che dimostra quanto il compositore conoscesse anche le più recenti esperienze. Castelnuovo-Tedesco appartiene a quella schiera non piccola ma nemmeno ampia di artisti autentici e ispirati, che, pur avvicinandosi a sfiorare il genio in più occasioni, in realtà non lo raggiungono mai. L'impostazione del brano da parte di Rustioni è assai fragorosa, nel senso che il maestro milanese acuisce in modo forse esagerato alcuni contrasti, tracciando la strada di un'esecuzione rispettosa del dettaglio, in questo aiutato da un'Orchestra Sinfonica Nazionale che dà prova di notevole abilità collettiva, ma dove il forte è sempre un po' troppo forte. Certamente, quando si ha di fronte un pezzo che il pubblico non conosce, spingere sul pedale della sonorità può lasciare un'impressione decisa su orecchie vergini, ma, considerato che all'interno della partitura circolano idee melodiche seducenti e dense di sviluppi, la percezione del valore sarebbe in grado di imporsi da sé. Di maggior accortezza è l'atteggiamento con con cui viene affrontato dal podio il Concerto n. 2 in la maggiore di Franz Liszt, con la parte orchestrale non secondaria come impegno rispetto a quella del solista, ruolo ricoperto per l'occasione da Francesco Piemontesi, che conferma ad ogni ritorno sotto la Mole di essere uno dei più interessanti e completi pianisti della sua generazione. La sua visione del trascendentale lavoro lisztiano è infatti lontana dall'esibizione della pura tecnica, che si palesa straordinaria e padroneggiata sotto ogni aspetto, ma rimane al servizio della piena e compiuta espressione del pianoforte, concepito non in veste di alter ego conflittuale e assetato di predominio sulla massa degli altri strumenti ma intriso di un senso di compenetrazione totale con il discorso sinfonico. Ecco allora, nei numerosi passi cantabili, l'anelito a un'intonazione di sapore cameristico, con il dialogo fra tastiera e prime parti che non viene mai meno per intensità e consistenza estetica ad ogni ricomparsa del tema conduttore. Ciò non significa che gli altrettanto rilevanti episodi di scoperta natura virtuosistica non siano valorizzati nella loro essenza spettacolare, grazie a un tocco preciso e pulito, a un'attenzione al timbro e alle gradazioni cromatiche sia nelle doppie ottave a mani parallele sia nei liquidi arabeschi dei passaggi cadenzati; su tutto prevale sempre un aristocratico equilibrio nel fraseggio e nella ricerca di un'aurea misura e coerenza personale tra intenzione e compimento che sono tratto distintivo della maturità di interprete di Piemontesi. Il medesimo, impeccabile connubio tra urgenza espressiva e nobiltà di realizzazione scorre come sotterranea linfa nei due emozionanti encore schubertiani offerti tra i caldi applausi della sala: l'ultimo dei Drei Klavierstücke D946 e l'Impromptu op. 90 n .3.
Il celebre Concerto per orchestra di Béla Bartók è un titolo di eccezionale stimolo e Rustioni non si sottrae all'onore e all'onere di presentare, nella seconda parte della serata, un complesso capolavoro del Novecento. Qui, come in Liszt, il suo gesto diventa più meditato e, pur non sfuggendo a talune fiammate al calor bianco, consegue una buona resa drammatica nel primo e terzo movimento, districandosi al meglio tra le difficoltà ritmiche della scrittura, intrisa di continui cambiamenti di tempo. Nelle rimanenti parti ('Giuoco delle coppie', 'Intermezzo interrotto' e 'Finale') il direttore appare assai concentrato nel tenere fermo il pallino del gioco intorno ai cangianti colori dell'orchestra bartokiana, a scapito di talune legnosità sotto l'aspetto agogico. Ne risulta una lettura meditata e originale, apprezzata dalla platea con ripetute ovazioni per tutti i protagonisti.
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