L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nabucco e il cavallo di legno

di Roberta Pedrotti

La nuova produzione di Nabucco che apre la stagione del Teatro delle Muse di Ancona convince appieno sul piano musicale, mentre qualche dubbio è destato dalla resa teatrale. Salda nella resa e interessante nelle idee la concertazione di György Györiványi Ráth.

ANCONA, 25 ottobre 2024 - Le Marche sono una regione musicalissima, terra natale di Pergolesi, Spontini e Rossini, di Corelli, Gigli e Tebaldi, culla del Rof e dello Sferisterio, ricca di rassegne, teatri ed enti di formazione, una Istituzione Concertistico Orchestrale (la FORM) e molte altre attivissime compagini, una Rete Lirica e due stagioni liriche autonome, Jesi e Ancona. Fa una certa impressione, pertanto, pensare che in questo pullulare di opportunità e iniziative si siano alternate nel tempo collaborazioni ma anche isolamenti: le due facce della medaglia di una regione “plurale”. Così, fa impressione che la buona volontà e la determinazione del Teatro delle Muse riceva nel capoluogo le risorse per una stagione di soli due titoli, senza contare che anche le stagioni concertistiche troppo spesso trova asilo nel poco ospitale, ma di più economica gestione, Sperimentale. La buona notizia di quest'anno è Madama Butterfly circuiterà in collaborazione con la Rete Lirica: speriamo sia l'inizio di un percorso comune che porti vantaggi a entrambi, dato che anche la programmazione della Rete resta piuttosto smilza, con due opere per tre teatri (Ascoli, Fano e Fermo: ma è possibile che a Pesaro e Macerata l'opera si veda solo d'estate, per esempio?). D'altro canto, le idee ci sono, tante e spesso belle (pensiamo alla Vestale di Spontini che ha debuttato a Jesi e viaggerà poi fra Emilia, Romagna e Toscana): proprio per questo piacerebbe da parte delle istituzioni e dell'imprenditoria un più deciso sostegno che valorizzi quanto c'è di buono e stimoli sempre più scambi e collaborazioni.

Un esempio di quanta qualità si possa esprimere nell'affollata pluralità marchigiana viene scorrendo la locandina del Nabucco inaugurale della stagione delle Muse. Bei nomi, solidi, interessanti, nessuna superstar, magari, ma esperienze di tutto rispetto e carriere più fresche da cui aspettarsi gustosi sviluppi. E poi c'è György Györiványi Ráth sul podio della Filarmonica regionale (FORM) a costituire la carta vincente dell'intera produzione. Il direttore ungherese impone una sua chiara lettura personale permeata di solenne sacralità, di una magniloquenza che non si fa mai greve o retorica, né, soprattutto, abbandona all'esteriorità le scelte di tempi meno consueti. È vero che la prima esposizione di “Deh perdona ad un padre che delira” e lo stesso “Va', pensiero” sono staccati leggermente più veloci del solito, ma nel notarlo non infastidisce, semmai accende l'attenzione verso l'ansia di Nabucco che nella ripresa si dilata e un involo nostalgico più appassionato che desolato. Per contro, non troveremo mai un'agogica troppo concitata, quella foga che spesso in Verdi – e non solo – si scambia per energia e drammaticità. Ráth, viceversa, punta sulla sorvegliata nobiltà del fraseggio, sulla cura di uno smalto orchestrale sempre ben a fuoco, morbido e vellutato o smaltato secondo necessità, confermando la sintonia già apprezzata lo scorso gennaio [Macerata-Ancona, concerto Ráth/Piccotti/Form, 16-17/01/2024].

Se ne giova anche il cast, che non è mai portato a forzare o a cercare controproducenti sottolineature. Per questo dispiace ancor più che un'indisposizione abbia colpito nel corso della serata Ernesto Petti, la cui voce sembra adattarsi perfettamente al ruolo eponimo. Come già notato nel recente Macbeth parmigiano, il baritono può vantare uno strumento di tutto rispetto, vigoroso, ben timbrato, portato a muoversi a proprio agio nelle tessiture verdiane con articolazione chiara del testo. In più, possiede quello che pare un naturale istinto per una resa non volgare dell'aspetto rude, barbarico, tracotante di queste figure, ricercando peraltro coerenti mezzevoci. Peccato davvero che dopo un inizio molto convincente una laringite non gli abbia permesso di esprimersi al meglio nelle ultime scene, sebbene sia da lodare il controllo mantenuto anche in questo frangente.

Viceversa in crescendo è la prova di Rebeka Lokar, Abigaille, che sembra accusare un certo affaticamento nell'aspro terzetto del primo atto, ma affronta poi con slancio l'ancor più impervio recitativo del secondo, siglando i suoi momenti migliori nel cantabile “Anch'io dischiuso un giorno” e nel finale “Su me... morente... esanime”. L'agilità non sarà delle più nitide e poderose, ma la cabaletta non manca di piglio e la natura generosa del soprano garantisce un risultato più che convincente.

La dote innata di Nicola Ulivieri non sarà, invece, quella più affine alla parte di Zaccaria, assai esigente nel registro grave, ma la padronanza del fraseggio e la nobiltà del porgere ne restituiscono tutta la dignità profetica e sacerdotale. Una riflessione diversa impone Irene Savignano, che avevamo molto apprezzato in altre occasioni (Roma, Verdi/Requiem, 12/07/2023) come uno dei più interessanti mezzosoprani della nuova generazione e che qui nei panni di Fenena è parsa incline a scurire troppo i centri, ingolfando un'emissione che può essere di ben altra qualità – e i pregevoli acuti lo confermano.

Alessandro Scotto Di Luzio è un efficace Ismaele e Luigi Morassi un imponente – in tutti i sensi – Abdallo; Andrea Tabili interpreta il Gran Sacerdote di Belo e Antonella Granata Anna. A ranghi ridotti rispetto a come siamo abituati ad ascoltarlo allo Sferisterio (con la direzione eccellente di Martino Faggiani) è il Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini” preparato qui da Francesco Calzolaro.

Rispetto alla felice resa musicale, l'aspetto teatrale di questo Nabucco si presta a qualche distinguo. Non si tratta, si badi bene, di una questione di risorse: è chiaro che da Ancona non ci si aspetti il dispiego di mezzi ostenso a Milano per Sant'Ambrigio. Siamo dell'opinione che siano le idee a contare e queste non costano nulla e, anzi, la loro virtù è proprio quella di non far intendere quando si sia (o non si sia) speso. Troviamo, peraltro, encomiabile il lavoro interno di Stefania Cempini per i costumi, che ci ricorda come il teatro sia fatto anche dall'ingegno aguzzato dalla necessità, dall'artistico artigianato di chi passa una vita nelle sartorie. Semmai ci sarebbe piaciuto che con il regista Mariano Bauduin si concordasse un'estetica più stilizzata, anche alla luce della scelta di intrecciare elementi di diverse culture, dall'Occidente al Kabuki. La ricreazione dei costumi d'epoca cambia nel tempo: uno stesso abito babilonese, ripreso da un bassorilievo, rivive diversamente nei vari decenni e oggi il nostro immaginario storico, allineato anche a film e serie, non è più quello che negli anni '50 e '60 era pure condiviso fra teatro e cinema. Questo per dire che uno stesso concetto “tradizionale” (inteso come “vestiamo i babilonesi come gli antichi babilonesi”) non si realizza sempre allo stesso modo e la foggia soprattutto dei costumi di Nabucco e Abigaille si sarebbe giovata non tanto del lusso dell'ultimo kolossal, quanto più di un gioco di sottrazione e astrazione. È quello che, d'altra parte, vediamo nella scena di Lucio Diana: due rampe di scale praticabili, una struttura lignea sospesa, un buon disegno luci dello stesso scenografo. Ma dove sta allora il problema? Non nel troppo poco, ma nel troppo. Bauduin nelle note di regia dipana un'ampia riflessione su spiritualità e sincretismo religioso in Verdi, fa intuire un'idea sacrale in perfetta sintonia con le intenzioni alla lettura di Ráth. Nei fatti, però, la carica di dettagli dispersivi (le amazzoni di Abigaille fanno ginnastica intorno a lei mentre medita sul “fatal scritto”?), di simboli più criptici che suggestivi (la fanciulla che allude alla liturgia delle Tenebre della Pasqua cristiana), di elementi che rischiano di scivolare dall'ispirata di sacra rappresentazione al risolino mal trattenuto (il cavallo di legno). L'idea del tableau oratoriale non sembra perseguita con piena convinzione e alla fine il risultato è più che altro di annullare i minimi momenti d'azione, come il salvataggio di Fenena dalla minaccia di Zaccaria (il pontefice ebreo aveva già la spada di Abigaille puntata da vicino da lunghi minuti, quindi l'intervento di Ismaele, oltre che timido, appare del tutto inutile). Mancando, pare, il coraggio di asciugare, togliere, stilizzare, alla fine proprio i due momenti spettacolari che facilmente si sarebbero risolti con le luci, come il fulmine e l'idolo infranto, restano tanto minimalisti (calano a terra prima la struttura lignea, poi una striscia di stoffa argentata) da passare inosservati; e quando, in questo impianto, si sarebbe ben potuto mantenere il coro fermo e solenne, il girotondo degli ebrei durante “Gli arredi festivi” fa pensare alle scene di massa dei peplum di Cinecittà, quando le comparse correvano per sembrare di più.

Insomma, da un lato, in musica, questo Nabucco ci racconta come anche con poco le idee e le persone giuste ci possano restituire una produzione degna di nota; dall'altro, in scena, come sia facile finire per far notare quel che manca più di ciò che si ha.

Quel che non manca, giustamente, sono gli applausi tributati a tutti da un pubblico eterogeneo – e che ci siano neofiti è sempre ottima cosa, sperando che possano diventare affezionati – con calore soprattutto per i musicisti.

Leggi anche:

Parma, Macbeth, 26/09/2024

Roma, Verdi/Requiem, 12/07/2023

Macerata-Ancona, concerto Ráth/Piccotti/Form, 16-17/01/2024

Ravenna, Norma, Nabucco e Galà verdiano dal 16 al 22 dicembre

Fidenza, Nabucco, 26/09/2023

 


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