L’Ape musicale

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I dubbi di Puccini e il finale di Alfano per l’opera degli enigmi

Giacomo Puccini muore a Bruxelles il 29 novembre 1924, lasciando incompiuta la sua ultima opera, Turandot, segnata da uno sforzo di rinnovamento stilistico che pone l’autore accanto ai principali compositori europei del suo tempo. Nel dicembre 1923, la partitura sembra quasi finita: compiuta la scena tragica della morte di Liù, manca solo il duetto finale in cui la principessa si abbandona finalmente all’amore. Ma il passaggio dal lutto per Liù allo “sgelamento” della principessa, all’ardore amoroso di Calaf e a un rapido lieto fine si rivela uno scoglio estremamente arduo dal punto di vista drammaturgico e musicale. Puccini, colpito da un tumore alla gola, continua a scrivere producendo 23 fogli che contengono 30 frammenti musicali. Ci lavora fino all’ultimo, portandoli con sé anche a Bruxelles dove si reca per un ultimo consulto medico. Dopo la morte del Maestro, l’editore Ricordi decide, su pressione di Arturo Toscanini, di affidare il completamento dell’opera sulla base delle bozze disponibili a Franco Alfano, già autore dell’opera di ambientazione orientale Sakuntala. Toscanini tuttavia non è per nulla soddisfatto della prima versione del finale propostagli da Alfano in cui sono ripresi, insieme a diversi temi degli atti precedenti, solo 3 dei frammenti di Puccini e gli impone di scriverne una seconda, più stringata, in cui i frammenti pucciniani diventano 4. La prima rappresentazione di Turandot ha luogo al Teatro alla Scala il 25 aprile 1926. Dirige Arturo Toscanini che, dopo la morte di Liù, depone la bacchetta e rivolge al pubblico la frase “Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto”.  

Da allora il secondo finale di Alfano è rimasto in repertorio, ma senza convincere del tutto per i limiti di scrittura dovuti anche alla rapidità di realizzazione, ma soprattutto perché il tono trionfale della nuova conclusione contrasta con le parole vergate dal compositore negli schizzi: “e poi Tristano”. Il Tristano e Isotta di Wagner, costantemente presente in una partitura che appartiene a un orizzonte stilistico nuovo rispetto alla produzione precedente di Puccini, si conclude in pianissimo, con un’estasi amorosa che è anche estasi di morte: tutto il contrario del coro trionfante cui Alfano fa cantare le parole (assenti dal libretto originale) “ride e canta l’infinita nostra felicità”. Un’indicazione preziosa sulle intenzioni di Puccini viene dal critico musicale Leonardo Pinzauti che in una lettera a Luciano Berio riporta la testimonianza di Salvatore Orlando, proveniente da una famiglia di armatori livornesi amici del compositore. Il giovane Orlando frequentava la villa di Puccini a Torre del Lago e ricorda che nel 1923 il Maestro gli fece ascoltare l’ultima scena al pianoforte spiegandogli che si trattava di un finale “come quello di Tristano”.  Le ultime battute erano pianissimo.

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