Più di Mozart, poté Bartòk (con Ravel)
di Luigi Raso
Il debutto partenopeo del quartetto van Kuijk, per la stagione dell'Associazione Scarlatti, inizia con qualche perplessità destata dalla lettura mozartiana, mentre il Novecento di Béla Bartòk e Maurice Ravel si mostra decisamente più congeniale alle caratteristiche dell'ensemble.
NAPOLI, 27 febbraio 2020 - È il drammatico e intenso Quartetto in re minore K 421 di Wolfgang Amadeus Mozart a segnare il debutto del Quartetto van Kuijk a Napoli: scritto nella cupa tonalità di re minore, la stessa del Don Giovanni e del Concerto per pianoforte e orchestra K 466, il secondo dei sei Quartetti dedicati a Franz Joseph Haydn è uno dei più audaci e innovativi del compositore salisburghese.
Il Quartetto van Kuijk non evita l’insidia dell’apparente semplicità della scrittura mozartiana: sin dalle prime battute la lettura è improntata a una eccessiva secchezza sonora e a una superficiale analisi interpretativa. L’esecuzione lascia perplessi: traspaiono aridità e inerzia espressive che prosciugano l’intero Quartetto di quella spontanea drammaticità che sgorga della scrittura di Mozart. Anche il suono del complesso cameristico appare troppo tagliente e poco tornito: è un suono, soprattutto quello del primo violino, che stenta a “riscaldarsi”, privando così l’intero Quartetto di quella nobile cupa cantabilità che ne costituisce la cifra connotativa.
Il van Kuijk dimostra di trovarsi decisamente a più agio con la ritmica barbarica e le sonorità stranite e fendenti tipicamente novecentesche del Quartetto n. 4 (1929) di Béla Bartòk, articolato in cinque movimenti: ben quattro sono scritti nel tempo di Allegro, Prestissimo, Allegretto e di nuovo Allegro, frazionati dall’enigmatico Non troppo lento centrale, gemma, per audacia di scrittura e sonorità, dell’intero Quartetto.
Se per il precedente Quartetto di Mozart l’immediatezza nell’approccio interpretativo e il ricorso a sonorità taglienti costituivano un limite, nell’affrontare il lavoro di Bartòk diventano pregi: a essere valorizzate sono l’anima della composizione e, in particolare, l’atmosfera sospesa e straniante del terzo movimento (Non troppo lento), un tenebroso canto notturno, ancora più carico di mistero e attesa in quanto incastonato tra le esplosioni agogiche del Prestissimo e dell’ Allegretto pizzicato. Da lodare proprio il pizzicato dei componenti del quartetto, che per rotondità e precisione quasi trasforma l’ Allegretto pizzicato in un concerto di chitarre.
Dalla asperità del Quartetto di Bartòk si passa, in chiusura, al sinuoso nelle melodie e ciclico nella forma Quartetto in fa maggiore (1904) di Maurice Ravel. Il van Kuijk si immerge immediatamente nella estenuata cantabilità del tema dell’Allegro moderato: il suono si fa più ricco, più duttile e incisivo; la dinamica e il fraseggio acquistano plasticità. Il risultato è una lettura vivida (il secondo movimento, Assez vif, très rythmé), contrastata, compiaciuta nell’edonismo sonoro che Ravel quantomeno chiede, variegata nell’articolazione del discorso musicale. Il Très lent del terzo movimento è costruito assai bene per mescolanza di timbri e ritmiche, e con adeguato risalto al pizzicato.
Al termine, il Quartetto van Kuijk riscuote un buon successo di pubblico; viene concesso un bis, di pregevolissima esecuzione: la trascrizione per quartetto d’archi del melanconico e francesissimo valzer Les Chemins de l’amour, mélodie composta nel 1940 da Francis Poulenc.