Puccini e Schönberg: gente nova
L'apertura della stagione lirica dell'Orchestra Haydn si distingue per l'intelligente accostamento fra Schönberg e Puccini in una nuova produzione di rilievo. Se qualche distinguo si può rilevare fra concertazione e regia, si distinguono le ottime prove dei professori in buca e degli interpreti sul palco.
BOLZANO, 9 novembre 2024 - 1924-2024. Per tutte le stagioni liriche del mondo, la parola d’ordine è “Puccini” nel centenario della morte. Nemmeno l’Orchestra Haydn, per aprire il suo cartellone operistico, si sottrae all'imperativo toscano, ma sceglie non di rinnovare il lutto, bensì di celebrare un incontro. Il primo aprile 1924 a Firenze si dà per la prima volta il Pierrot Lunaire di Schönberg, presente l'autore. La partitura ha ormai una dozzina d’anni, ma è ancora avanguardia dirompente. E Puccini, sempre attentissimo a ciò che lo circonda, non manca. L'operista italiano che ha conquistato il mondo, all'apice della fama incontra il più giovane austriaco che sta riscrivendo le regole della sintassi musicale mentre si trascina il travaglio per la nascita di Turandot. E proprio la grande incompiuta pucciniana sarà fonte di esempi favoriti da Schönberg (a sua volta autore di un'opera sofferta e non completata: Moses und Aron) nelle sue lezioni americane.
A ricordare quella prima italiana del Pierrot Lunaire alla presenza di Puccini, la Haydn abbina al rivoluzionario ciclo liederistico di Schönberg Gianni Schicchi, la rivoluzionaria opera buffa dell'italiano. Un genere principe della tradizione austro-tedesca si fa latore del sovvertimento della tradizione; un genere fiorito cent’anni prima è scelto da Verdi prima e da Puccini poi per un congedo agrodolce, una risata amara che dal passato continua a incidere sul futuro.
Le reazioni del pubblico, che sigla il successo del dittico inaugurale ma in parte non manca di mormorare in favore della melodia di “O mio babbino caro” con malcelata diffidenza verso l'allucinato espressionismo della maschera, conferma quanto a distanza di un secolo l’accostamento sia ancora attuale. Schönberg non ha perso la sua carica sovversiva, Puccini continua a piacere, ma anche a ribadire di non essere solo un infallibile seduttore melodico.
Che tutti guardino avanti sembra dirlo con fermezza la regia di Valentina Carrasco, che, chiamata a dar veste teatrale anche all'astrazione del Lied, propone un'associazione con le arti figurative tanto lampante - e naturale in Schönberg - da apparire perfino didascalica. Il Pierrot Lunaire perde l'essenzialità spettrale consueta e diventa una pièce complessa, in cui la solista (Alda Caiello, sempre una garanzia per questo repertorio) rappresenta la musa e la voce interiore di un pittore tormentato che dal paesaggio ancora ottocentesco arriva a usare la falce lunare per lacerare la tela à la Fontana. Il suo percorso mentale, fatto di allucinazioni, ossessioni erotiche e macabre, è costellato di dipinti variamente associati, senza soluzione di continuità ai versi di Artur Giraud. A vestire i tormentati panni dell'artista in cerca di sé e d’avanguardia abbiamo Bruno Taddia e se le sue qualità di attore cantante erano ben note, quelle di mimo (e danzatore) sono davvero sorprendenti: senz'aprir bocca regge la scena per quaranta minuti filati come se fosse questa la sua specialità.
Poi, mentre Caiello farà una fugace apparizione come Beatrice (abbinata a un Dante invece fin troppo presente), Taddia sarà anche Gianni Schicchi in una visione unitaria che contrappone il classicismo rinascimentale dei conservatori Donati all'avanguardia del protagonista e della figliola (una sorta di marionetta futurista vivente, già intravista nell'epilogo del Pierrot), abbracciata infine anche da Rinuccio. È tutto un gran divertimento per lo scenografo e costumista Mauro Tinti, che (con il disegno luci del sempre ottimo Giuseppe Di Iorio) spara tinte pastello e, nell'inventare il compianto di Buoso come un tableau vivant alla Piero della Francesca (non per nulla il redivivo Buoso/Schicchi si dispone come nella Risurrezione di Sansepolcro), si concede almeno due gustosi ritrattini: Betto come sant'Agata en travesti con i seni sul vassoio e Marco come San Pietro da Verona, con il coltello piantato nel cranio. Quando poi la casa fiorentina cambia proprietà, il paesaggio rinascimentale lascia il posto a un colossale Mondrian, ed è anche il momento in cui ci sfugge il sorriso più sentito della serata. Per il resto, pesa un po' troppo su Gianni Schicchi il ricorso continuo e talora ridondante a gag ed espedienti comici. Si ha l'impressione che la regista, una volta impostato il suo concetto artistico sul piano figurativo, si sia sentita in dovere ad ogni piè sospinto di farci ridere. Non è poi necessario, anche perché è vero che Gianni Schicchi è una commedia, ma è grottesca, meschina, puzza di zolfo e di humor nero, quindi un po' più di cattiveria e un po' meno comicità avrebbero potuto perfino accrescere il divertimento.
Sul piano musicale si conferma il vantaggio di Schönberg, che può contare sul palco sulla voce e la presenza della citata e scaltritissima Caiello e in buca sui Solisti dell'Orchestra Haydn: Marco Mandolini (violino), Gabriele Marangoni (viola), Gianluca Montaruli (violoncello), Sijing Tu (flauto e ottavino), Nadia Bortolamedi (clarinetto e clarinetto basso) e Ciro Longobardi (pianoforte). La qualità dei singoli e del gioco cameristico è patente e si esprime con un nitore sempre al servizio di un continuo trascolorare fra il diafano e il torbido, fra atmosfere livide e violente o sospese, seducenti e ironiche. Nondimeno, quando dal sestetto di prime parti si passa all’organico completo, l’Orchestra si mantiene ad altissimi livelli: suono sempre pastoso e pulito, timbricamente definito, senso dell’assieme e nel contempo precisione di ogni singolo intervento senza perdere respiro. Fra le ICO italiane la Haydn merita senz’altro un posto d’onore.
Dopo aver concertato il Pierrot Lunaire forte della propria esperienza nella musica da camera e nel Lied come nel repertorio del Novecento, Michele Gamba convince meno in Puccini. Opta per tempi ondivaghi che faticano a trovare una precisa ragione drammatica e finiscono per appesantire il discorso (vedi “Firenze è come un albero fiorito”, invero assai faticosa nonostante le buone qualità del tenore Antonio Mandrillo) o per appiattire la geniale costruzione ritmica e metrica di “In testa la cappellina” e del pandemonio dei Donati e dell’“amore tra parenti”. Spiace pure che non si realizzi l’atmosfera di trasognata sensualità della vestizione e che l’assieme non risulti sempre il meccanismo a orologeria impeccabile che Puccini ha escogitato.
Spiace non solo perché abbiamo in buca un’ottima orchestra, ma anche perché il palco schiera un cast di tutto rispetto. Abbiamo citato l’arguzia attoriale di Bruno Taddia, che compensa egregiamente con carisma e pungente ironia una vocalità non rigogliosa; abbiamo citato il Rinuccio squillante e simpatico di Antonio Mandrillo, cui si affianca la fresca e dolce Lauretta di Sara Cortolezzis. Spicca, poi, la Zita di Enkelejda Shkoza: timbro lucente che passa agevole anche nell’assieme, non un’ombra di caricatura, semmai la naturale autorevolezza dell’energica matriarca. Nondimeno, Marcello Nardis è un Gherardo di qualità, come la Nella di Francesca Maionchi; Gianni Giuga è uno stralunato Betto/Sant’Agata e ben assortiti risultano anche il rubicondo Simone di Renzo Ran, il Marco di David Roy, la Ciesca di Sarah Richmond, cui si aggiungono Mattia Rossi (mastro Spinelloccio e ser Amantio), Federico Evangelista (Pinellino), Lorenzo Ziller (Guccio), nonché il piccolo Ben Perkmann (Gherardino) e l’attore Iosu Lezemeta nei panni succinti di un Buoso ancora assai vitale.
Se sul palco la richiesta dell’attenuante trova per tutta risposta un aggressivo Alighieri che aggredisce Schicchi, il pubblico bolzanino applaude con calore questa festosa apertura di stagione. Al di là di qualche distinguo sui risultati, la scelta dei titoli, la qualità dell’orchestra e della macchina produttiva, la partecipazione degli spettatori danno soddisfazioni di ottimo auspicio per il prosieguo della stagione, che al Novecento storico (Satyricon di Maderna) affiancherà il belcanto rossiniano più popolare (Il barbiere di Siviglia) e l’opera seria di Handel (Giulio Cesare). Anche in una stagione breve si può spaziare nel repertorio e nei generi: benissimo.