Capricci di dei, guerra di uomini
di Alberto Ponti
La stagione 2022/2023 dell’Orchestra Sinfonica Nazionale si chiude con il ritorno sul podio di Kirill Petrenko a cui un pubblico non folto riserva una trionfale e meritata accoglienza
TORINO, 25 maggio 2023 - Partiamo da un dato di fatto: Kirill Petrenko è tra i pochissimi direttori al mondo in grado di trarre un suono personale dalle orchestre che si trova a dirigere. Ogni volta che viene a Torino, sotto la sua guida l’Orchestra Sinfonica Nazionale, già ottimo complesso di per sé, riesce a raggiungere vette difficilmente eguagliabili. Non è questione di tecnica, che a livello di alto professionismo si dà per scontata. Limitandoci alla presente stagione, sotto altre bacchette sono state proposte partiture di lunghezza ben maggiore e di complessità e virtuosismo non inferiore al programma dei due concerti di mercoledì 23 e giovedì 24 maggio (Drei Orchesterstücke op. 6 di Alban Berg e Lemminkäinen Suite op. 22 di Jean Sibelius), ma il risultato raggiunto da Petrenko in termini di bellezza ed esattezza di suono, elasticità di timbro, precisione di fraseggio, perfezione nella scansione ritmica costituiscono un unicum indissolubile che appartiene a questo maestro, alla sua visione e capacità personale e a nessun altro.
Lasciamo ora da parte il fatto musicale, su cui torneremo a breve, per alcune considerazioni di ordine generale che meritano di essere anteposte. A stupire chi scrive, e molti presenti alle due serate, è stata un’affluenza di pubblico tutto sommato inferiore alla media e alle aspettative per un appuntamento di questo livello. Senza voler fare i conti in tasca a nessuno, della capienza totale di oltre 1500 posti dell’auditorium Toscanini, credo che forse si sia arrivati alla metà.
Il programma ha certamente giocato un ruolo importante: ricordo pochi anni fa una sala abbastanza gremita, non piena nemmeno allora, quando Petrenko affrontò la Haffner di Mozart e la Patetica di Čajkovskij, pezzi assai più popolari. D’altro canto la curiosità di ascoltarlo in un repertorio di più rara esecuzione dovrebbe agire da ulteriore stimolo. Uno dei maggiori direttori al mondo che affronta due pagine di grandissimo fascino e bellezza non può che suscitare una risposta positiva da una città il cui vanto è di essere una delle capitali culturali e musicali d’Italia. Questa risposta, al di là dell’entusiasmo incontenibile dei presenti che ha colmato, a livello di decibel negli applausi, la mancanza dei posti vuoti, da parte di Torino non c’è stata. Non intendo fare paragoni fuori luogo con il costo di eventi sportivi o concerti pop che richiamano decine di migliaia di persone, ma il prezzo del biglietto andava dai 30 euro per la poltrona numerata in platea (!) ai 9 euro per l’ingresso giovani under 35. Di questo va riconosciuto un grandissimo merito alla Rai per fare cultura a un prezzo accessibile. Se Petrenko avesse diretto la Filarmonica della Scala per un posto in platea si sarebbe dovuto sborsare una cifra almeno tre o quattro volte superiore. Si dirà che Torino non ha, per una semplice questione numerica di abitanti, il medesimo bacino di utenza di Milano. Il fatto avrà un suo peso ma, ai tempi attuali, in cui la gente non si sposta più a cavallo o a piedi, mi pare una scusa debole, considerato che molte persone in sala arrivavano da fuori città. Dietro di me un piccolo gruppo di turisti francesi, di passaggio sotto la Mole, non aveva voluto perdersi l’evento. All’uscita, una coppia consultava l’orologio prevedendo l’ora del ritorno a casa a Voghera.
Manca, ai concerti dell’OSN Rai, quel sapore vagamente mondano che può caratterizzare in parte altre istituzioni torinesi, in primis il Regio, erede in questo senso di una lunga tradizione italiana del teatro come luogo di incontro sociale, e poi i Concerti del Lingotto. Se Petrenko fosse venuto con i Berliner Philarmoniker, di cui è direttore principale, o con un’altra orchestra all’auditorium Agnelli, siamo sicuri che gli spettatori sarebbero stati pochi?
Ma non è sul richiamo sociale di un evento, anche se viviamo in un mondo ‘social’, che occorre a mio parere fare affidamento in via principale. Il direttore russo-austriaco è un uomo che rifugge atteggiamenti divistici e si presterebbe tra l’altro molto poco al gioco. Mi ha lasciato perplesso, e qui termino la digressione, la poca presenza di giovani (nella fascia tra i 15 e i 40 anni) che invece sono stati numerosi in altre occasioni durante la stagione. Era un concerto prezioso, considerato che per l’op. 6 di Berg, opera di enorme concentrazione di mezzi, lo stesso Petrenko, invitato dal direttore artistico Ernesto Schiavi, ha guidato il pubblico facendo ascoltare uno ad uno i motivi principali prima dell’esecuzione completa commentandoli in un italiano quasi perfetto, in una sorta di lezione alla Bernstein. La mancanza di quelli che dovrebbero essere gli ascoltatori del futuro è un pessimo segnale, non solo imputabile a distrazione o indifferenza. A prevalere, pure a livello di fruizione culturale, è una scoraggiante mentalità impregnata di utilitarismo facile. Prendo ciò che mi serve nell’immediato. Se sono uno studente di musica è probabile che la conoscenza di queste pagine di Berg e Sibelius non sia decisiva per il superamento di nessun esame. Abbiamo ragazzi di vent’anni, diplomati in conservatorio, che sottopongono loro stessi e le proprie famiglie a sacrifici enormi per seguire corsi in giro per il mondo con insegnanti spesso di dubbia fama inseguendo il sogno di una carriera che, per la spietata legge dei grandi numeri, in pochissimi raggiungeranno e snobbano uno dei sommi artisti viventi quando si esibisce a casa loro. Mi si permetta di dire che per molti di essi l’affermazione non sarà solo dipesa dalla bontà o meno degli studi che avranno potuto pagarsi ma anche dalla curiosità o interesse che avranno dimostrato per tutto ciò che esula dal compitino o dall’obiettivo a cui vorrebbero arrivare.
Sulla presentazione dei Drei Orchesterstücke si è detto poco sopra. I tre pezzi, Präludium, Reigen (Girotondo) e Marsch nascono a metà degli anni ’10 del Novecento e rivelano le profonde influenze mahleriane del giovane Alban Berg (1885-1935). La scrittura, nonostante la breve durata, è densissima, un groviglio di linee armoniche e melodiche che l’eccellente bacchetta di Petrenko dipana in maniera esemplare rendendo intellegibile e chiaro nella forma ciò che a prima vista rischia di apparire un brusio indistinto (il preludio iniziale) o una violenza cieca e disordinata (nella marcia) scatenata dall’amplissimo organico previsto, con i legni a quattro, sei corni, ottoni e percussioni allargate e la vasta sezione di archi con otto contrabbassi. Non si deve nemmeno pensare alla direzione dell’opera come a una fredda autopsia del corpo sinfonico che, nell’impresa di sviscerare con chiarezza gli elementi costitutivi, penalizzi l’espressione e il sentimento di un autore che, pure nei momenti di più acceso fervore atonale, rimane nell’intimo un tardoromantico. In Berg si respira un’atmosfera di trasporto, passione e sofferenza. Esemplare è il secondo brano, dove il richiamo danzante presente nel nome, si trasfigura in un allucinato e febbrile ritmo pulsante che attraversa tutti i colori dell’orchestra sfumando in un evanescente pulviscolo di veloci figurazioni indicate con quattro p in partitura.
Nata sulla scorta delle suggestioni suscitate dalla lettura del Kalevala, la suite o ciclo Lemminkäinen op. 22 (dal nome di uno dei personaggi principali della saga nordica) creata fra il 1893 e il 1895 da Jean Sibelius si compone di quattro pezzi, ognuno dei quali potrebbe definirsi un poema sinfonico a sé stante: Lemminkäinen e le ragazze di Saari, quello di maggior ampiezza e complessità, Lemminkäinen in Tuonela, il meno riuscito del gruppo su cui lo stesso autore ebbe qualche riserva ma che grazie alla fantasmagorica direzione di Petrenko pare lo stesso un capolavoro, e infine i celebri Il cigno di Tuonela e Il ritorno di Lemminkäinen. Inutile dire che ogni tassello della sontuosa strumentazione di Sibelius è al posto giusto: la versione ascoltata all’auditorium Toscanini pare il non plus ultra per un lavoro privo di una grossa discografia (se si eccettua Il cigno di Tuonela). Ogni componente dell’orchestra meriterebbe un proprio elogio e ricordare solo alcuni protagonisti sarebbe fare un torto agli altri che magari non hanno ruoli solistici di primissimo piano del genere del corno inglese ancora nel Cigno ma contribuiscono all’interpretazione perfetta. Le pennellate degli archi ora sono più luminose che mai ora si velano della sommessa incurabile tristezza di certi tramonti nordici, al pari degli squilli di apertura del quartetto dei corni, carichi di un languore eroico e struggente insieme. E che dire dei ruggiti leggendari di trombe e tromboni, della pienezza timbrica dei legni, con l’esaltazione di tutte le sottigliezze di umore disseminate fra trilli, staccati, rapidissime scale e note ribattute per buona parte dei quasi 50 minuti di durata della suite?
Le ovazioni trionfali nei confronti di Kirill Petrenko chiudono, oltre alla stagione di ‘sontuosa normalità’ dell’indovinato slogan, una serata dalla forte valenza simbolica. I Drei Orchesterstücke, opera della crisi dell’Europa travolta dalla guerra, non sono così distanti come potrebbe sembrare dall’universo di Sibelius. Nei cromatismi striscianti di certi passi di Lemminkäinen, solo in apparenza oscurati dallo splendore fastoso degli ottoni, si aggira già lo spettro della catastrofe che avvicina i capricci del dio del Kalevala a quelli dell’uomo, così ben dipinta nemmeno vent’anni dopo da Alban Berg. Il fatto rende più che mai interessante e ricca di valore la prima produzione del finlandese. Con buona pace di chi, appena eletto al soglio dei Berliner, per ironia della sorte stessa compagine ora diretta dal nostro uomo, dichiarò che, se fosse dipeso da lui, l’orchestra non avrebbe più intonato una sola nota di Respighi e Sibelius.