Lo scrigno di Davy Jones
di Roberta Pedrotti
L'Opera di Roma assesta un altro colpo magistrale con un nuovo capitolo del suo ciclo dedicato a Britten: Peter Grimes con la direzione di Michele Mariotti, la regia di Deborah Warner e un cast eccellente è uno spettacolo che resterà nella memoria.
ROMA, 15 ottobre 2024 - Lo scrigno di Davy Jones accoglie negli abissi chi muore per mare. Non sempre, però, è facile lasciarli andare, farli riposare in pace. Il corpo del mozzo stroncato dalla sete e gettato in acqua continua a incombere, mentre Peter Grimes tenta invano di non fargli toccare il fondo. Con questa immagine si apre, mentre la gente del borgo punta le torce inquisitrici contro il pescatore, lo spettacolo firmato da Deborah Walker all'opera di Roma. Peter, nel sonno, è tormentato da quel corpo in balia delle onde come dalle chiacchiere dei paesani. Solo alla fine, quando un secondo mozzo, per un fatale incidente, finirà sepolto fra i flutti e lo stesso pescatore si lascerà affondare, terzo corpo, estremo sacrificio, la chiusura – forse – del ciclo, il cadavere troverà pace sul fondale, nello scrigno di Davy Jones.
Uno dei segni dell'alterità del protagonista del primo grande capolavoro di Britten, capofila di una poetica di diversi ed emarginati, oltre che di vittime e di idealisti, è infatti il suo legame con una dimensione spirituale negata ai materialisti e ipocriti abitanti del borgo. Si beve, si fa sesso, ci si impiccia degli affari altrui, di religione e di decenza, ma solo Peter Grimes parla davvero di stelle, della natura, del destino, e della leggenda del demoniaco Davy Jones. Questi incarna i suoi tormenti interiori così come nel cielo si proiettano i desideri e le ambizioni che la società trasforma in brama irrazionale di una ricchezza, unica apparente garanzia di rispetto. Il lavoro di Warner - in coproduzione con Teatro Real di Madrid, Royal Opera House Covent Garden di Londra e Opéra National di Parigi – entra nel dettaglio di queste dicotomie e contraddizioni con una finezza straordinaria, non solo nell'immagine ciclica del corpo che lentamente affonda, ma anche mille piccoli dettagli che caratterizzano il microcosmo del borgo senza perderne una sfumatura. Di grande delicatezza, per esempio, il quartetto delle donne nel secondo atto, quando la ferita alla gamba di Ellen, spintonata da Grimes, sembra riflettersi nel bastone cui si appoggia la più anziana Auntie, come in un dolore condiviso che attraversa le generazioni. Il “farmacista” Ned Keene è più che altro un piccolo spacciatore, il che sottolinea ancor più l'ipocrisia borghese della vedova Sedley, dipendente dal laudano e sempre pronta indagare sul prossimo e puntare il dito; più che detestarla, però, proviamo una forma di tenerezza. D'altra parte, chi è davvero colpevole? Peter Grimes, irascibile, certo, ma anche sfortunato, perfetto capro espiatorio, o tutta una società che fa tranquillamente mercato di orfani da sfruttare? Deborah Warner non trascura nessun interrogativo, nessuna sfaccettatura dei personaggi, sempre presenti nel gesto e nelle interazioni come nei costumi di Luis F. Carvalho e negli interventi coreografici curati da Kim Brandstrup. Le scene di Michael Levine non sono meno significative: un sottile capolavoro degno della fama e della carriera del suo autore, con il bancone del pub a livello del suolo, sovvertendo le normali prospettive per il pubblico, che in platea può sentirsi fra gli avventori e dai palchi in su ad abbracciarli dall'alto. Altrove l'ambiente è vuoto, occupato solo dalle belle luci di Peter Mumford o dai video non invasivi di Justin Nardella, oppure fa intuire nella rampa che rappresenta la capanna di Grimes un'immagine delle casupole del borgo.
L'ambiguità continua, la sottile linea fra realtà e simbolo, immedesimazione e straniamento si esprime anche attraverso le didascalie proiettate ad annunciare sia gli intervalli sia i sei Sea Interludes che intercalano le varie scene. Questi sono, ovviamente, il grande momento di gloria sinfonica per ogni direttore (e ogni orchestra) che si avvicini all'opera di Britten, ma sarebbe davvero ingeneroso, oltre che profondamente sbagliato, disgiungerli nel complesso della lettura di Michele Mariotti, che si distingue proprio per una tensione continua, per una visione coesa senza soluzione di continuità, in cui la voce del mare è naturalmente alternata alle voci del borgo. E quello di Peter Grimes, lo sentiamo bene, non è un mare domestico, profumato; è un pare freddo, senza odore, una dimensione a sé, sia spazio psicologico sia minaccioso buco nero, fatale ai corpi e alle anime. Mariotti restituisce questo gelo, queste trasparenze anche con tutto il corpo e l'intensità del suono, così come lascia fluire con apparente naturalezza – vale a dire quella naturalezza frutto del massimo studio e della tecnica – i contrasti continui della partitura, la sua ciclicità che sa di ringkomposition, il trapassare dalla sghemba furia ritmica all'improvvisa, dolce e dolente condivisione del quartetto femminile (ed ecco che le due “nipotine” si scoprono esseri umani commoventi) nel secondo atto, nel terzo lo sgonfiarsi quasi comico del coro del linciaggio (giustamente Warner fa brandire al branco violento l'Union Jack: il becero nazionalismo va a braccetto con l'ipocrita violenza contro il capro espiatorio) proprio nel momento in cui, invece, davvero si è consumata una nuova tragedia. Ancora una volta Mariotti si conferma il direttore italiano di maggior interesse nella generazione che incalza quelle dei Gatti e degli Chailly.
Quando regia e concertazione lavorano così bene e di comune accordo, il cast ha vita facile, anche nelle difficoltà di un'opera come questa. O, meglio ancora, fa sembrare facile quel che non si può dire che oggettivamente lo sia. Certo, Allan Clayton è un protagonista di notevole spessore poetico, in crescita nel corso dell'opera con uno scavo sempre più profondo delle sottigliezze della parola cantata. Nondimeno Sophie Bevan sa unire nella sua Ellen Orford la dolcezza innata del porgere con la serpeggiante stanchezza, l'inconfessata asprezza di chi non potrà mai vedere i frutti delle proprie buone intenzioni. Simon Keenlyside è un Balstrode che diremmo di lusso se non fosse amalgamato alla perfezione con il resto del cast, artista di rango sia nella carismatica fisicità sia nel raccoglimento più distinto e sensibile. Anche John Graham-Hall, già Grimes alla Scala e ora Bob Boles, non passa inosservato con un acume mai prevaricante. Lo Swallow di Clive Bayley è autorevole e sfaccettato così come il Ned Keene di Jacques Imbrailo è disinvolto e malizioso. Ottimi sono pure la ruvida Auntie di Catherine Wyn-Rogers; la nevrotica Mrs. Sedley di Clare Presland; le “nipotine” di Jennifer France e Natalia Labourdette, complici sia nell'estroversione sensuale sia nel malinconico rovescio della medaglia; l'acuto Reverendo Horace Adams di James Gilchrist, altro cameo eccellente; l'Hobson di Stephen Richardson. Impegnato senza risparmio, Giacomo Milesi è bravissimo nei panni muti del piccolo mozzo. Infine, il contributo solistico di Daniele Massimi, Michela Nardella e Leonardo Triciarelli è un valore aggiunto nella prova del coro preparato da Ciro Visco, che non solo esegue bene la sua parte, ma soprattutto dimostra di coglierne la peculiarità drammatica con un'impostazione delle sonorità quasi cameristica, tale da rendere, più che una solenne massa popolare, il brulicare di individui del piccolo borgo senza perdere di compattezza e coesione.
Il teatro alla fine è giustamente festante e tributa a tutti gli artisti al proscenio l'accoglienza ardente che uno spettacolo come questo merita. Senza dubbio, una delle produzioni da ricordare di questo 2024, oltre che la conferma del fatto che chi ancora teme l'opera degli ultimi cento anni (e Peter Grimes, 1945, dovrebbe essere ormai un classico universalmente riconosciuto) sbaglia, sbaglia di grosso.