L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Beethoven e le sue sinfonie (I)

di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia presenta il suo pezzo forte per il ciclo estivo dei concerti: l’integrale delle nove sinfonie di Ludwig van Beethoven sotto la direzione di Daniele Gatti. Questa è la recensione delle prime due serate (18 e 20 giugno), dove vengono eseguite le prime cinque sinfonie.

ROMA, 18-20 giugno 2024 – Il programma di sala di questo nuovo ciclo beethoveniano all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia si apre con queste parole del maestro Daniele Gatti: «proporre l’integrale delle sinfonie di Beethoven con l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia era un mio desiderio fin da quando, negli anni Novanta, ne ero direttore principale». Il desiderio di Gatti può ora trovare realizzazione all’interno del Festival Estivo proposto quest’anno dall’Accademia. L’ultimo ciclo beethoveniano integrale, val bene ricordare, fu quello diretto da Antonio Pappano all’interno del cartellone della stagione 2019/2020.

L’idea di fondo di Gatti è quella di un Beethoven ben scontornato: i suoi gesti sono sintetici, portati a definire un’agogica rigorosa, a tratti persino muscolare, sottolineano sempre con efficacia i momenti dello sviluppo del pensiero musicale di Beethoven. Caratteristica precipua di Gatti è l’uso delle variazioni agogiche in funzione della sottolineatura dei passaggi: spesso rallenta il tempo, per poi accelerare più decisamente, creando una dinamica certamente d’effetto, che crea indubbio movimento. Ci troviamo lontani, ovviamente, dalle rese raffinatamente eleganti, morbide, per esempio, di un Karajan, come pure all’approccio metafisico dell’ultimo Abbado. Gatti è saldamente attaccato a terra, per così dire, con le idee chiare e una certa verve che si traduce in un’agogica assai galoppante. Ne vedremo un esempio nei tempi ‘lenti’, come quelli della Quarta e della Quinta – ma il caso più vistoso è l’Adagio della Quarta, giacché l’Andante con moto della Quinta, appunto, non è, a rigor di logica, un adagio.

La prima serata, il 18, si eseguono la Prima, la Quarta e la Quinta. La Prima, con la sua ironia haydniana, la scrittura raffinata, d’eleganza settecentesca, scorre piacevolissima; di grande effetto il passaggio Adagio – Allegro del I movimento, accentuato al massimo da Gatti, elegante l’Andante, spigliato il Minuetto e vigoroso l’Allegro molto e vivace, dove si percepisce la prima vena sinfonica di Beethoven (il finale pregno di Militärmusik strappa non pochi applausi). Nell’esecuzione della Quarta Gatti, per così dire, allarga il volume orchestrale: il I movimento, l’Allegro vivace, è scultoreo nella sua frenesia e vivacità; come già notato, eccessivamente calcato, soprattutto sul piano agogico, l’Adagio, che dovrebbe essere un’«aria per orchestra» caratterizzata da un «incanto nativo e pacato della melodia» e trova, invece, quasi un disequilibrio fra l’accompagnamento «tanto sommesso quanto balzante e arguto» e la delicatezza dell’aria stessa (le citazioni sono tratte dal programma di sala, a firma di G. Pestelli). Decisamente meglio non solo l’Allegro vivace (III), lo scherzo (pregevole il trio), ma soprattutto il finale Allegro, dove Gatti incontra quel naturale slancio ritmico che è connaturato al suo sentire la musica. La Quinta chiude la ricca serata. L’attacco dell’Allegro con brio, le celeberrime terzine del destino che, ineluttabile, ‘bussa alla porta’, sono lasciate scorrere con un’enfasi meno tronfiamente retorica, il che rende il tutto più efficace, meno carico. Gatti è attento alla tenuta agogica, ancora una volta rutilante, e richiede alle varie compagini strumentali di attaccare con precisione i passaggi, sempre ben sottolineati: come già detto, altra caratteristica precipua di Gatti è quella di sottolineare taluni passaggi orchestrali – talvolta quasi ex abrupto – per rendere maggiormente vivido l’ascolto musicale. L’Andante (II), dove il direttore non lesina polso, si lascia apprezzare, nella lettura di Gatti, soprattutto per gli slanci eroici. Stupendi i due movimenti finali, straordinariamente congiunti da un passaggio in pizzicato degli archi, dove Gatti può, ancora, sentire Beethoven con quello slancio che gli è consono: sia lo scherzo che il finale Allegro e Presto, la cui esplosione iniziale rimane certamente impressa, sono felicissimi nella resa e, in particolare, il finale, impregnato di «sublime spiritualità e di festa popolare allo stesso tempo» (Pestelli), fa scrosciare fragorosi gli applausi in sala.

La seconda serata, il 20 giugno, vengono eseguite la Seconda e la Terza. L’approccio di Gatti, naturalmente, è coerente con quanto già mostrato nella prima serata. Per quanto riguarda la Seconda, riesce assai brillante il passaggio fra Adagio e Allegro con brio (I), il cui sviluppo è interpretato con precisione, puntualità e gusto per l’effetto sorpresa sonoro. Ancora il Larghetto (II) è agogicamente sostenuto, come la maggior parte dei movimenti lenti delle sinfonie finora eseguite: ciò che interessa a Gatti è, ancora, l’energia dinamica della musica beethoveniana. Brillante lo Scherzo, la cui verve risulta più interessante di diverse esecuzioni, pur blasonate – peraltro, Gatti sospende, in netto contrasto, la bucolica delicatezza del trio, cui non manca l’ironia del fagotto in staccato, nella tessitura bassa. L’Allegro molto finale è irresistibile per la vena umoristica ed i contrasti chiaroscurali. Applausi. Nel secondo tempo, propone un’ottima esecuzione della Terza. L’orchestra, che ha al solito tenuta e resa ottima, palesa qualche lieve problema nella sezione degli ottoni, peraltro da Gatti porta con piglio quasi wagneriano. Ottimo l’Allegro con brio inziale, che viene esaltato nei suoi colori, nelle dinamiche e nell’elaborata struttura. La Marcia funebre scorre inesorabile, con un ottimo lavoro sulle compagini basse dell’orchestra, creanti quell’atmosfera cupa da cui tentano di stagliarsi archi e fiati nel designare temi che anelano alla limpidezza, per ricadere, comunque, nell’oscurità. Gatti è abile nel mantenere la congrua coerenza agogica, necessaria ad un siffatto effetto. Splendido lo Scherzo, soprattutto per le folate degli archi, che preludono all’esplodere orchestrale. Molto ben riuscito anche il finale, debitamente spaginato nella sua sintassi a tema e variazioni, così cara a Beethoven. Il pubblico applaude, risuonano ‘bravo’ nella sala.


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