L’Α e l’Ω di Beethoven
di Stefano Ceccarelli
L’attesissimo concerto di chiusura della stagione sinfonica 2023/2024 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è una soirée monografica su Ludwig van Beethoven. Star della serata è l’amata Martha Argerich, che esegue il Concerto n. 2 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op. 19. Sul podio c’è Lahav Shani, al suo debutto all’Accademia, che chiuderà con la Sinfonia n. 9 in re minore op. 125.
ROMA, 14 giugno 2024 – Il concerto di chiusura della corrente stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è un indubbio successo di pubblico: tutta la sala Santa Cecilia è gremita, non volendo considerare, peraltro, tutti i problemi logistici connessi con un’inattesa manifestazione calcistica – per permettere al pubblico di entrare oltre l’orario di inizio, il presidente Dall’Ongaro invita il primo violoncellista, Luigi Piovano, a deliziare il pubblico con il celebre Preludio dalla Prima suite di Bach. Oltre all’accattivante programma (la Nona è, giustamente, amatissima), a fare la parte del leone – anzi, della leonessa – è Martha Argerich, vera star del pianismo internazionale, amatissima da schiere di generazioni per il suo estro e il carattere da rock star. Incuriosisce, poi, Lahav Shani, poliedrico artista che, dopo un’iniziale carriera da pianista e da orchestrale, ha preso in mano la bacchetta e si è dedicato, stabilmente, alla direzione.
La serata inizia con il Secondo concerto di Beethoven, che, in realtà, è il primo in ordine cronologico. Impossibile, infatti, non notarne la brillantezza mozartiana coniugata alla sintassi haydniana. Non si tratta di un Beethoven particolarmente ostico, né difficile su un piano meramente tecnico. L’arte della Argerich, infatti, si esplica in questo frangente proprio nel tocco, nell’eleganza delle scelte timbriche, nei respiri e nei fraseggi, nella sublime resa dei passaggi; l’artista tende ad un’esecuzione quasi intimistica, oserei dire cameristica, contenendo i volumi e giocando sui colori. Le cadenze dell’Allegro con brio, dal carattere al contempo brioso e contrappuntistico, il respiro con cui legge le lunghe frasi dell’Adagio, cantabile; la rapidità virtuosistica del Rondò, con i suoi colori tzigani, le variazioni ritmiche: tutto è infuso del più puro stile della Argerich. L’intesa con Shani è ottima, così come la coordinazione con l’orchestra, che rende magnificamente pagine di fresca invenzione beethoveniana. Gli applausi, alla fine, invadono la sala: a sorpresa, Argerich e Shani regalano, come bis, un’esecuzione a quattro mani dell’incantata Le Jardin féerique da Ma Mère l’Oye di Maurice Ravel. Shani dimostra, quindi, grande versatilità, esibendosi pure come pianista.
Dall’alpha, il primo Beethoven, si passa all’omega, la Nona. Lo stile di Shani si incardina in quella categoria di direttori che cercano sempre la bellezza del suono, talvolta percorrono vie originali, ma con moderazione, badando, appunto alla resa estetica. Una lettura di tal genere, però, appiattisce al mero dato estetico il discorso beethoveniano: lo si è notato in qualche attacco poco deciso (l’incipit del celeberrimo Finale) o anche nell’esecuzione dell’Adagio molto e cantabile, un movimento pregno di misticismo, «brano metafisico, ‘caldo’ ma come proveniente da quei mondi intangibili dei quali recano traccia gli ultimi Quartetti beethoveniani» (E. Girardi, dal programma di sala), dove Shani imposta un’agogica, forse, poco larga, poco atta a far emergere il senso vero del movimento, seppur piacevolissima, si badi. L’orchestra, peraltro, suona divinamente e scolpisce il complesso e potente sviluppo del pensiero sinfonico beethoveniano; in tal senso, il primo movimento, l’Allegro ma non troppo, un poco maestoso riesce benissimo, come pure il successivo Scherzo, espressione culminante del dionisismo così caratteristico nel compositore (si pensi alla Sesta ma, soprattutto, alla Settima). L’ultimo movimento, il Finale, è ben gestito da Shani, soprattutto nell’equilibrio fra la compagine orchestrale e quella vocale. Eccellente l’attacco di Giorgi Manoshvili, «O Freunde, nicht diese Töne», scolpito e stentoreo, come pure il successivo «Freude, schöner Götterfunken», con l’ingresso monumentale del Coro dell’Accademia, il quale dona una performance strepitosa. Gli altri solisti, che rendono giustizia al messaggio di fratellanza alla base dell’inno di Schiller, sono Chen Reiss (soprano), Okka von der Damerau (mezzosoprano) e il tenore Siyabonga Maqungo, che regala un’eccellente resa, per squillo e uniformità vocale, del turchesco «Froh, wie seine Sonnen fliegen». Magnifica, luminosa, la ripresa di «Freude, schöner Götterfunken». Shani nelle battute finali del movimento ristagna lievemente nell’Adagio ma non troppo, ma divoto (ancora ricerca, più che il senso sacro, la bellezza del suono) e attacca, poi, l’immortale finale, che chiude in giubilo un monumento musicale all’umanità.